
Roma, 1972, ancora vivo. Ex docente di Estetica, ex ricercatore…
Nel lavoro del giornalista entrano in gioco diverse competenze, diverse capacità, diversi poteri e gerarchie – tutti immersi nel contesto culturale del quale il giornale e il giornalista fa parte.
Sono problemi giornalistici sia il linguaggio con il quale si scrivono i pezzi, sia come vengono presentati e disposti nel giornale, sia chi ne decide o cambia il contenuto, il titolo o la posizione.
Il problema di un paese che non ha, nella maggior parte dei casi, dei giornalisti professionisti preparati sulle questioni di genere è che in questo modo si continuerà a dare a lettori e spettatori un’immagine profondamente sessista della società, perché le discriminazioni riguardo il genere sessuale sono attuate in tanti modi e verso gruppi diversi, e non conoscerle significa replicarle, amplificarle, diffonderle.
Si può discriminare – volontariamente o meno – sia chi viene descritto in un articolo, sia chi lo legge; e si può discriminare sia attraverso la scelta di alcune parole, sia scegliendo la posizione o il modo di presentare le informazioni all’interno del giornale.
Dal 5 agosto 1981 (abrogazione del “delitto d’onore”) l’espressione delitto passionale e sinonimi non è stata abbandonata, né questa idea è uscita dalla cultura popolare.
Il riferimento alla “passione” che ancora continua a ogni femminicidio – e non solo – è un giudizio attenuante, perché fa riferimento a uno stato mentale alterato del (presunto) colpevole, prima che investigatori, giudici, processo possano cercare e certificare una possibile spiegazione certa per quanto accaduto.
Allo stesso modo “raptus”, termine medico, nella cronaca è un’altra locuzione assolutoria: elimina la premeditazione, la lucidità, la ferma intenzione di fare del male del (presunto) colpevole.
Questi non sono compiti del giornalista; questa è mera violenza sociale in nome di un (presunto) amore che tutto giustifica. Dalle “Raccomandazioni della IFJ (International Federation of Journalists) per l’informazione sulla violenza contro le donne”:
«2. Usare un linguaggio esatto e libero da pregiudizi. L’eccesso di dettagli rischia di far precipitare il reportage nel sensazionalismo. Così come l’assenza di dettagli rischia di ridurre o banalizzare la gravità della situazione […].
«6. […] Utilizzare l’opinione di esperti come quelli dei DART (centri post-traumatici) amplifica la comprensione del pubblico e fornisce informazioni precise ed utili […].»
La maggioranza degli articoli relativi a fatti di sangue, aggressioni, stupri, subiti da donne descrivono il (presunto) colpevole come una persona “normale”, accentuando così il carattere occasionale e/o inspiegabile del delitto o del reato commesso. La donna è molto spesso identificata con il suo ruolo o un suo attributo: lei è la moglie, la compagna, “la brasiliana”, la segretaria, la ragazza, la ballerina, la “ex”. Si insinua così che la sua attività o il suo status abbiano avuto un ruolo di corresponsabilità in quanto è capitato. Sempre da quelle “Raccomandazioni”:
«3. Le persone colpite da questo genere di trauma non sempre desiderano venir definite “vittime” […].
«7. Raccontare la vicenda per intero: spesso i media isolano degli incidenti specifici e si concentrano sul loro aspetto tragico […].»
È chiaro che se ogni femminicidio o stupro o violenza di genere viene descritto come un “delitto passionale succeduto a un raptus di follia di un bravo ragazzo”, è impossibile comprendere tutti questi atti violenti come facenti parte di un fenomeno sociale più complesso e non occasionale, cioè una cultura patriarcale e sessista. In più, un numero impressionante di articoli di giornale che descrivono femminicidi, stupri e altre forme di aggressione di genere assumono come inevitabile la corresponsabilità della donna.
Ancora dalle “Raccomandazioni”:
«2. […] Evitare di colpevolizzare in qualche modo la persona sopravvissuta alla violenza o di far intendere che è responsabile degli atti di violenza subiti.
«6. L’uso di statistiche e informazioni sull’ambito sociale permette di collocare la violenza nel proprio contesto. I lettori e gli spettatori hanno bisogno di una informazione su larga scala […].»
Come ha ben sintetizzato in un recente incontro a Sassari una operatrice di un centro antiviolenza per uomini maltrattanti, il problema è sempre il dover rassicurare tutti che «io non sono un mostro».
Non appena si toccano certi argomenti gli uomini, a prescindere dalla loro professione, assumono un atteggiamento difensivo e il diffuso sessismo non fa che confermare – e rassicurare – che le cose vanno bene così come sono sempre andate. Certamente è molto difficile impegnarsi a spiegare la differenza tra colpa e responsabilità, ma se esiste con un qualche senso un ordine professionale per chi fa informazione, sarebbe ora che si facesse carico prima possibile anche di questo.
Le espressioni sessiste e il loro uso abituale sono la manifestazione della presenza culturale di un numero enorme di pregiudizi e luoghi comuni sui ruoli sociali di ciascun genere, come la parte emersa di un iceberg di sessismi.
Esempi: l’uomo non può stare per un certo tempo senza fare sesso, altrimenti sta male; la donna dice no per dire sì; esistono luoghi nei quali la sola presenza indica la propria disponibilità sessuale incondizionata; una donna deve sempre gradire un complimento sul suo aspetto fisico, altrimenti ha qualcosa che non va…
Secondo lo stesso schema, lasciare un uomo per un altro, andarsene di casa, decidere o minacciare di lasciare il compagno, vestirsi con tacchi, minigonna, scollature, negare un appuntamento, un bacio, sottrarsi a un abbraccio, sono raccontati come ciò che ha “scatenato il raptus”. Ma non sono provocazioni, sono libertà. Descriverle come provocazioni significa credere a uno schema sessista di comunicazione, possesso, potere. Schema che non funziona solo tramite un lessico.
Chiamo da anni col nome di “ghetti rosa” quelle sezioni e quegli spazi nei quali trovano posto gli articoli pensati e scritti per il “pubblico femminile”. In questi spazi – e solo in questi – compaiono spesso interessanti articoli che affrontano questioni di genere; ma posizionati lì, nessun uomo li leggerà mai.
Pensare che le questioni di genere, il femminismo, l’antisessimo, siano argomenti per le donne, è sessismo. Allo stesso modo sono espliciti sessismi quegli articoli pubblicati nella sezione “Scienza” con titoli incredibili come i seguenti, tutti veri: «SE DONNA GUADAGNA DI PIÙ, UOMO VA VERSO VIAGRA», «SPERMA, ANTIDEPRESSIVO NATURALE PER LE DONNE», «L’ENDOMETRIOSI RENDE LA DONNA PIÙ ATTRAENTE», «A COSA SERVE L’ORGASMO FEMMINILE? “RICOMPENSA” PER IL RAPPORTO», «CASALINGHE, IL MESTIERE GIUSTO PER PROTEGGERSI DAL CANCRO AL SENO».
Cosa dire poi di quello strumento noto come “colonna infame”. Per raccogliere i clic dei navigatori del web, il metodo notoriamente più semplice è usare il corpo delle donne: la colonna più a destra dei siti dei quotidiani è dedicata al gossip, a gallery fotografiche, a “curiosità” raramente non impersonate da donne in bikini o simili. Giudicare i propri lettori come dei maschi costantemente eccitati e incapaci di trattenersi di fronte a un corpo ammiccante è sessismo.
Quando ho esposto per la prima volta queste cose a un pubblico di giornalisti professionisti, in un seminario valido per la loro formazione e patrocinato dall’Ordine (Lecce, 2014), alla fine della mia esposizione – a parte una giornalista che inveiva contro la parola “femminicidio” – ho visto l’uditorio dividersi in due fazioni: chi mi ringraziava e sosteneva che di questi argomenti c’è molto bisogno di discutere, e chi mi dava dell’ignorante che non aveva idea di cosa bisogna davvero fare in una redazione.
Mi sono limitato a far notare loro che se quello era il risultato, evidentemente come categoria professionale avevano un problema piuttosto urgente da affrontare. Dopo anni, è ciò che continua a succedere.
La cosa si fa ancora più divertente da quando succede, in un certo senso, direttamente a me.
Ultimo caso: su “F” del 24 maggio scorso è uscita una mia intervista di due pagine. Il titolo dell’intervista, non scelto né da me né dalla giornalista che mi ha intervistato, è stato: «Aiuta in cucina, gioca a pallone con le bambine: diventerai un vero uomo».
Più o meno l’esatto contrario di quello che ho voluto dire, con in più la tremenda espressione “vero uomo” – altro sessismo gratuito.

Roma, 1972, ancora vivo. Ex docente di Estetica, ex ricercatore in Scienze della Formazione, ex docente di Informatica, ex venditore di spazi pubblicitari, ex operaio, ex programmatore. Attualmente filosofo femminista, alla faccia di chi dice che non è possibile.