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La prima volta che ho visto un porno con altri occhi
Dark Light

La prima volta che ho visto un porno con altri occhi

Quando sono tornato a guardare un porno commerciale dopo aver capito qualcosa dell’industria culturale che li produce, lo confesso: ho capito di non aver capito mai nulla di quello che stavo vedendo.

In un Paese che non fa educazione sessuale di nessun tipo a scuola (sì, lo so che ci sono fantastiche eccezioni, ma elencarle non le fa essere meno eccezionali), la pornografia commerciale diventa per forza di cose uno strumento educativo. Di facile accesso, ammantata dall’ipocrita mistero che una cultura moralista gli costruisce intorno, adeguata ai classici valori patriarcali della maschilità – misurazione dei corpi, prestazione atletica, artificialità delle immagini – la pornografia commerciale diventa il mezzo con il quale si costruisce l’immaginario sessuale di milioni di persone. Nessuna delle quali si rende conto che, come ogni prodotto cinematografico, è una finzione.

“Ma fanno sesso per davvero!” – beh, se quello lo chiamate sesso, mi dispiace per voi. Quello che fanno per davvero è sesso quanto il wrestling è per davvero uno sport (qualche esempio di racconto molto contrastante qui e qui).

La realtà di un porno commerciale appare quando lo si esamina più tecnicamente e meno offuscati dalla nebbia “goliardica” e ipocrita che tipicamente ne avvolge la chiacchiera. Nessuno si chiede perché su un set di porno commerciale le telecamere in funzione sono molte, e non le solite due o tre che un regista richiede; né perché i fotografi di scena sono tanti e non uno solo. La risposta è semplice: quando un noto attore porno vi dice che è riuscito a girare mille film all’anno, fatevi due conti, non ha davvero partecipato a tre set al giorno. È che con la stessa mezz’ora di materiale girato, filmato da punti di vista diversi e con luci diverse, si producono svariati spezzoni di pochi minuti che in post-produzione diventano prodotti nuovi. Per non parlare delle centinaia di foto prodotte. A livello industriale, il guadagno di chi produce – è facile intuirlo – è enorme.

Non una parola sullo sfruttamento al quale sono sottoposti i protagonisti. Qualche testimonianza affiora, e al solito la si prende per esagerata: vuoi che se la passino davvero male le star di Brazzers e Digital Playground? Peccato che un’industria culturale che fattura milioni e milioni di dollari non è certo giudicabile per la sua “elite”. La maggior parte della produzione porno commerciale avviene – come per qualsiasi settore industriale – in condizioni di precariato salariale, di igiene e sicurezza trascurate, di mobbing e violenza psicologica (quando va bene).

E cosa si vede in questi prodotti? Si vedono corpi il più delle volte costruiti in maniera irreale – depilati, gonfiati, aderenti a standard artificiali e unificanti, stereotipati all’inverosimile – che si agitano secondo un copione perfettamente sincronizzato di gesti e tempi sostanzialmente sempre uguali a seconda del “genere” del prodotto. Dovendo soddisfare una precisa domanda, il prodotto non può essere più di tanto diverso dallo standard richiesto. E, sempre per soddisfare una precisa domanda del mercato, il prodotto mostra sempre la stessa costruzione del “lieto fine”: una prestazione sessuale di tipo olimpionico che produce una soddisfazione garantita in partenza – che facciamo, vogliamo deludere il cliente?

L’immaginario che si alimenta così è quello prestazionale, atletico: più sono capace nelle mie misure – attrezzatura, frequenza, ritmo, numero di partner – più aumento la soddisfazione mia e di chi fa sesso con me. Esattamente quello che non succede nella realtà: il porno commerciale costruisce un immaginario sessuale sostanzialmente fantascientifico, più o meno come se usassimo “Star Wars” per farci un’idea di come funzionano realmente i viaggi nello spazio.

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Quello che rimane dunque escluso dal porno commerciale è proprio la realtà. Nella realtà nessuno può sapere cosa piace al corpo che ha davanti, perché nessuno sa cosa potrebbe piacere al proprio; il sesso si fa (almeno) in due e, ogni volta che cambia uno dei protagonisti, c’è da esplorare nuove possibilità, nuovi piaceri diversi perché i corpi in gioco sono diversi. Esattamente questo non si può permettere un prodotto commerciale, un prodotto di un’industria culturale: mostrare l’esitazione, il dubbio, la scoperta, il gioco, la scommessa, il rischio, il fallimento, la riuscita, l’imparare, il ridere, l’impazzire – in una parola, il desiderio e la sua imprevedibilità. In poche parole, la cosa più bella del sesso.

Che per molti e molte, educati ed educate da immagini false e finte, rimane quella cosa mal vista e mal capita che per tutta la vita farà dire loro: “Tutto qui?”.

Esistono altre pornografie, esistono altri immaginari. Vi invito a esplorarli, uscendo da moralismi ipocriti che insegnano paure, maschilismi ridicoli che servono a farsi sfruttare, fantasie povere che sono solo prigioni.

Per approfondire:
AG About Gender – Ripensare il genere e l’agency nella pornografia: produttor*, consumator*, lavorator* e contesti
Valentine aka Fluida Wolf – Postporno
View Comments (2)
  • stavolta sono totalmente d’accordo (tranne sulla depilazione). Ho sempre trovato molto più eccitanti le scene d’amore dei ilm normali e persino delle soap. aggiungo che se ci fosse un’adeguata educazione sessuale il porno sarebbe sostanzialmente innocuo per gli adolescenti che lo guardano

  • “Quello che fanno per davvero è sesso quanto il wrestling è per davvero uno sport (qualche esempio di racconto molto contrastante qui e qui).”

    Credo di non aver ben compreso questo passaggio. Che il sesso fatto su un set porno sia diverso da quello fatto fuori da un set porno, non significa mica che non è sesso. Che sia studiato a tavolino, che sia pianificato, che sia fatto a comando, non significa mica che non sia sesso. Non mi pare che nelle testimonianze linkare si dica che i rapporti sessuali che hanno luogo davanti alle telecamere di un set porno non siano rapporti sessuali.

    Mi piacerebbe avere un chiarimento da parte dell’autore del presente articolo perché credo di aver frainteso questo passaggio.

    Grazie.

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