Articolo di Manuel Carminati
La ricerca scientifica indaga da quasi cinquant’anni molti aspetti dell’omogenitorialità e dello sviluppo di bambini in famiglie a conduzione LGB; essa procede con strumenti e metodi sempre più precisi e orientandosi via via su aspetti diversi, rispondendo anche ad alcune istanze sociali e ai cambiamenti che stanno attraversando la società.
Le prime ricerche svolte negli anni Settanta si concentravano sugli individui omosessuali che avevano avuto figli all’interno di relazioni eterosessuali, in particolare andando a indagare, senza particolari accortezze metodologiche, le caratteristiche degli uomini gay che avevano costruito una vita etero, sposati e con figli.
Molto più rilevanti, invece, quelle ricerche che, dalla metà del decennio, si sono focalizzate sulle competenze genitoriali di persone LGB, basandosi sia sull’esperienza del genitore che del figlio; tuttavia, i primi articoli apparsi hanno peccato di sistematicità nell’indagare la “variabile omosessualità”, concepita come aspetto intrinseco della persona e che, seguendo questo approccio, avrebbe influenzato a priori la sua capacità di essere genitore. Si ignoravano così fattori psico-sociali più rilevanti per la ricerca sul benessere familiare, ad esempio l’essere gay/lesbiche dichiarat* oppure no.
Ricordiamoci che lungo questo decennio l’omosessualità, seppur gradualmente depatologizzata, persisteva nell’essere considerata una forma di disturbo o deviazione dalla norma psicosessuale (qui una rapida rassegna manualistica).
Negli anni Ottanta gli studi si evolvono verso una più precisa definizione dell’oggetto di ricerca, interessandosi così ai vissuti relazionali connessi all’omogenitorialità e al processo di coming out coi figli, prendendo in esame sia l’esperienza dei genitori che dei figli.
In parallelo, si moltiplicano e approfondiscono gli studi sulle famiglie a conduzione femminile e sullo sviluppo dei figli in assenza di un padre: sono gli anni del “lesbian baby boom”, ovvero l’esplosione di casi di madri che crescono figli da sole, anche ricorrendo alla procreazione medica assistita. In questi studi, permane una visione biologizzante della maternità e della genitorialità, perciò con “madre lesbica single” si intendono storie personali molto differenti tra loro.
Alcuni studi tra i tanti, però, approfondiscono per la prima volta la complessità del fenomeno, discernendo in modo preciso tra tipi di famiglie: in particolare, nel 1986 inizia la raccolta dei dati del National Longitudinal Lesbian Family Study di Gartrell e colleghe, studio longitudinale su migliaia di famiglie a conduzione lesbica, che ha iniziato a produrre le proprie conclusioni nel 1996 ed è tuttora in attività.
Negli anni Novanta si è giunti a un concetto di parentela e genitorialità più vicino a quello contemporaneo e più adatto a descrivere i fenomeni affettivi: raggiunta una posizione non pregiudizievole sull’omosessualità, essa passa in secondo piano negli studi prodotti in questi anni; questi, infatti, indagano primariamente i processi affettivi delle famiglie a conduzione LGB e lo sviluppo dei figli sotto l’aspetto relazionale, confrontandoli con nuclei eterosessuali simili. Le famiglie di fondazione omosessuale diventano la maggioranza dei casi indagati, garantendo campioni coerenti per storia e ambiente familiare. A queste ricerche si affiancano i follow up e gli importantissimi dati longitudinali (ovvero, tratti da valutazioni estese nel tempo) degli studi iniziati il decennio prima.
A oggi i dati accumulati sono tanti da permettere agli studiosi di tirarne le fila: già a inizio millennio sono state pubblicate alcune revisioni della letteratura, non esenti da critiche sull’approccio usato fino ad allora. Per esempio, nel 2001 Stacey e Biblarz affermano che sono state spesso sottostimate le differenze tra i figli di famiglie etero e famiglie LGB e che questo deriva da una posizione teorica spesso apologetica, forse derivante dal timore di assecondare il pregiudizio molto diffuso che i figli di coppie gay debbano in qualche modo essere diversi dai figli di coppie etero.
Compaiono i primi dati ricavati in modo naturale, ovvero trovando figli di coppie lesbiche e gay in grandi campioni di studenti selezionati casualmente: due studi in particolare, quello di Golombok e colleghi del 2003, scritto su dati ricavati dalle quattordicimila famiglie dello Avon Longitudinal Study of Parents and Children, e le analisi di Wainright e Patterson (2004, 2006, 2008) sullo studio Add Health realizzato nel 1997, il cui campione totale fu di 12.105 adolescenti.
Inoltre si accumulano i primi dati su figli nati da coppie maschili con la surrogacy e sulla cogenitorialità allargata, ovvero famiglie in cui i diversi genitori, biologici e sociali, sono compresenti nella crescita del figlio.
Le moltissime ricerche accumulate sono in genere limitate nella numerosità del campione anche se la varietà interna è molto ampia: in parole povere, la forza delle conclusioni che è possibile trarre da ognuna di esse è limitata ma quello che è possibile affermare riguarda certamente il concetto di omogenitorialità.
Così nel 2015 Adams e Light hanno provveduto a realizzare una revisione delle ricerche più accreditate sul tema dell’omogenitorialità e hanno potuto concludere che non sussistono prove su una differenza tra i figli di famiglie a conduzione eterosessuale e omosessuale. Solo quattro studi affermano il contrario e la comunità scientifica ne ha criticato il metodo e smontato le conclusioni. Li vediamo in ordine cronologico.
Lo studio di Sotirios Sarantakos
Sotirios Sarantakos pubblica nel 1996 un articolo in cui riporta che bambini che vivono con una coppia omosessuale riportano risultati peggiori in quasi tutti gli aspetti scolastici valutati, se confrontati con bambini figli di coppie etero sposate o di coppie etero conviventi. Alcuni importanti dettagli di questo studio, però, ne inficiano la validità.
In primo luogo, i bambini che vivevano con coppie omosessuali erano spesso figli di divorziati e la maggior parte di loro vivevano in famiglie ricomposte, di cui non era ricostruita precisamente la storia affettiva, al contrario dei figli di coppie sposate e coppie conviventi scelti come campione di confronto. Questo fa sì che il campione scelto non risulti bilanciato nella dimensione dei fattori di rischio.
Una seconda fallacia sta nel metodo di raccolta dei dati: Sarantakos utilizzò l’intervista agli insegnanti dei bambini, i quali rivelarono la presenza di una grande tensione nelle classi, particolarmente influenzata dal pregiudizio dei genitori dei compagni di classe. Loro stessi suggerirono un rapporto diretto tra questa tensione discriminatoria e i cattivi risultati dei ragazzi a scuola; lo stesso Sarantakos notò un certo pregiudizio da parte di alcuni insegnanti verso questi bambini, tanto da proporsi di approfondirlo in uno studio di follow-up.
New Families Structures Study di Mark Regnerus
Se gli errori di Sarantakos possono essere imputati a una certa leggerezza nel considerare la complessità della famiglia, quelli commessi nel “New Families Structures Study” di Mark Regnerus hanno ricevuto una dura reazione da parte della comunità scientifica tanto da portare la rivista che pubblicò il suo articolo, Social Science Research, a un’indagine interna per chiarire come si fosse giunti alla pubblicazione del pezzo. In questo studio, giudicato una “farsa” dai suoi revisori, vennero intervistati circa 3000 giovani adulti. Le loro famiglie di provenienza furono divise in 8 categorie: “famiglie biologiche ancora intatte”, “adottati da estranei”, “divorziati tardi”, “affido”, “genitore single”, “madre lesbica”, “padre gay”, “altro”. Regnerus inserì nelle categorie “madre lesbica” e “padre gay” tutti i soggetti che avevano risposto positivamente alla domanda: “Da quando sei nato all’età di diciott’anni (o fino a che hai lasciato casa per stare per conto tuo), tua madre/tuo padre ha mai avuto una relazione romantica con qualcuno dello stesso sesso?”. Ecco che la variabile categoriale “struttura familiare” viene ridotta a un singolo episodio del tutto decontestualizzato, ignorando i fattori affettivi delle famiglie di origine e che tipo di relazione i genitori e “gli amanti” avessero avuto. Il confronto tra il gruppo dei soggetti figli di “famiglie biologiche ancora intatte” e “madri lesbiche” fu impietoso: tra questi si registrarono alti livelli di disoccupazione, disimpegno politico, infedeltà e persino abuso sessuale in infanzia. I figli di “padri gay” non presentarono significatività statistica nelle stesse categorie per via del numero esiguo di soggetti.
Un simile effetto è però del tutto artefatto poiché il gruppo di confronto era formato da soggetti che non avevano vissuto né divorzi, né affidi, né adozioni, né relazioni fedifraghe tali da compromettere l’integrità della famiglia: un campione così levigato mostra ovviamente dati superiori alla media.
Social Science Research incaricò Darren Sherkat di condurre l’indagine interna e questi trovò conflitti di interesse tra i revisori scientifici; in particolare, i finanziamenti per lo studio venivano dal Whitherspoon Institute, nella cui mission c’è l’opposizione al matrimonio egualitario. La pubblicazione sarebbe servita ad alzare la pressione politica sulla Corte Suprema statunitense, la quale di lì a poco avrebbe dovuto giudicare l’incostituzionalità della Proposition 8, una legge della California che aveva bandito il matrimonio omosessuale.
La ricerca di Douglas Allen
Douglas Allen, economista canadese, analizzando i dati tratti dal 20% del censimento 2006 concluse che i figli di gay e lesbiche avrebbero minori probabilità dei figli di famiglie eterogenitoriali sposate di raggiungere il diploma. Anche in questo caso, il campionamento dello studio lo rende inefficace: Allen infatti considera soltanto i ragazzi che vivono coi genitori tra i 17 e i 22 anni di età. Questa scelta esclude quindi tutti i ragazzi che, una volta diplomati, sono andati a vivere da soli, spesso al college. In questa finestra, Allen conta soltanto 279 figli di famiglie gay e lesbiche. Questi due gruppi così formati erano in media più giovani dei figli di coppie eterosessuali con cui vennero confrontati e quindi più probabilmente ancora in attesa di diplomarsi al momento della registrazione. Inoltre, una ricerca di Bos e colleghi del 2004 dimostrava una maggiore tendenza nelle famiglie lesbiche a mandare i figli al college subito dopo il diploma, ragazzi quindi diplomati ed emancipati che non verrebbero intercettati da questo campionamento.
Si consideri infine che il matrimonio egualitario fu introdotto in Canada solo un anno prima di quel censimento: questo significa che, nuovamente, quelli tra loro effettivamente nati e cresciuti in una famiglia a conduzione omosessuale non avevano goduto della tutela del matrimonio. Per questi motivi, il campionamento di questo studio è totalmente errato.
I due studi di don Paul Sullins
L’ultimo autore da citare è don Paul Sullins, pastore protestante convertitosi al cattolicesimo, già professore di sociologia presso la Catholic University of America. Nel 2015 Sullins pubblica due studi tratti dalle National Health Interview Surveys, dati clinici accumulati dal 1997 al 2013 su 207.007 bambini americani. In questo campione egli seleziona 512 bambini che vivono con genitori dello stesso sesso e li confronta con figli di coppie eterosessuali sposate, trovando maggiori problemi emotivi e attentivi nei primi. Seppure lo stesso autore riconosca la bassa gravità del caso, afferma che il fenomeno delle famiglie omogenitoriali vada contrastato. Sullins parla di famiglie fondate sul “legame biologico congiunto”, possibile solo nelle famiglie etero sposate, giungendo quindi a conclusioni non soltanto omofobe ma mettendo in discussione ogni tipo di adozione.
Come negli esempi precedenti, il campione sperimentale è molto artefatto e basato su presupposti impropri (per esempio, tra i due articoli sembrano esserci delle modifiche nelle categorie genitoriali proposte), ignorando le storie e la composizione delle singole famiglie indagate e confrontandole con un gruppo di famiglie particolarmente ripulito da fattori di rischio come il divorzio e l’adozione; se si considera poi che tra le coppie omosessuali è più frequente l’adozione di bambini con bisogni speciali, si spiega facilmente il risultato trovato da Sullins.
Sulla cattiva fede di don Sullins, però, non c’è dubbio alcuno: a questo link trovate la discussione di un suo altro studio in cui egli dimostrerebbe che la presenza di preti omosessuali e di “sottoculture gay” nei seminari avrebbe portato a un recente aumento di abusi infantili omosessuali.
«La ricerca scientifica indaga da quasi cinquant’anni molti aspetti dell’omogenitorialità e dello sviluppo di bambini in famiglie a conduzione LGB; essa procede con strumenti e metodi sempre più precisi e orientandosi via via su aspetti diversi, rispondendo anche ad alcune istanze sociali e ai cambiamenti che stanno attraversando la società.»
Il problema è che, posto che si pensi alla scienza così come si pensa di solito alla scienza, sono ricerche difettose tutte quante, contestabili e niente a fatto conclusive, sia quelle che mettono in cattiva luce le famiglie omogenitoriali sia quelle che non lo fanno. Per il semplice fatto che la psicologia e la sociologia sono scienze molli, sicché, se si pensa alla scienza in un certo modo, le ricerche psicologiche e sociologiche hanno ben poco valore.