Articolo di Rossella Ciciarelli
Che cos’è il corpo, il nostro corpo? Macchina complessa e meravigliosa che ci tiene in vita e ci permette di compiere azioni straordinarie; involucro del nostro essere attraverso il quale esprimere ciò che siamo; prima immagine che agli altri forniamo di noi; eloquente strumento di comunicazione; testimonianza di vissuti; terra di scontro fra significati (personali, sociali e politici), aspettative (nostre e altrui), ruoli e divieti.
Per questo motivo, il corpo è stato, è e continuerà a essere soggetto, oggetto e strumento di un fare artistico interessato a esplorare il tema dell’identità. Un esempio è la Body art, che utilizza il corpo per fare un’arte dal forte valore sociale. Conosciamola insieme.
Corpi in rivolta
Come abbiamo sottolineato già altrove, il corpo femminile nell’arte ha sempre avuto il ruolo di codificare l’Altro, di essere oggetto della rappresentazione, schiavo di una dittatura dello sguardo che, pensato come genericamente maschile, molto dice delle dinamiche di potere fra i generi nei periodi storici in cui questi nudi vennero realizzati. Venere, Diana e le sue ninfe, allegorie, vizi e virtù, odalische, bagni turchi: basta entrare in qualsiasi galleria d’arte moderna per rendersi conto di quanti significati il corpo della donna abbia assunto per volere di artisti e committenti spinti, più o meno consapevolmente, anche da desideri voyeuristici.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento però qualcosa è cambiato e l’artista stesso col proprio corpo è diventato, come detto, soggetto e oggetto, mezzo e supporto per la creazione artistica.
Fare Body Art, utilizzare il proprio corpo, vuol dire dunque:
– Ribaltare lo stereotipo secolare del “nudo-oggetto”;
– Rivendicare il diritto a usare liberamente il proprio corpo in modo autonomo;
– Consegnare se stessi agli spettatori, e, attraverso il dono di sé e della propria identità, fornire punti di vista differenti sulla società: influenzare la cultura, trasformare gli stereotipi, creare spazi nel mondo dell’arte per tutte quelle identità cui questo spazio era sempre stato precluso;
– Scuotere il pubblico attraverso un’arte intensa che sfrutta il rapporto diretto con e fra le persone
Del resto, sono gli anni del Sessantotto, delle rivendicazioni studentesche, del movimento per i diritti civili, della seconda ondata del femminismo, e siccome l’arte non è mai un universo a sé stante ma da sempre è influenzata e influenza il mondo in cui si forma, inevitabilmente tutte queste rivendicazioni confluiscono al suo interno.
Attivismo artistico e politico tendono a coincidere e nell’arte del “corpo in azione” emergono temi quali la condizione femminile, l’identità di genere, l’omosessualità, la guerra, l’apertura verso l’altro e verso il mondo.
La Body Art e il corpo femminista
«Ero davvero ossessionata dalla domanda: ‘Potrei essere allo stesso tempo il soggetto, nudo, e l’autrice dell’opera, trasformando le proporzioni e il punto di vista del nudo stesso?’».
Carolee Schneemann
Carolee Schneemann, considerata fra le madri dell’arte femminista (oltre che della Body Art), con il suo lavoro artistico ha voluto affrontare il tabù del piacere femminile e ha dimostrato che è possibile decidere di esporre consapevolmente il proprio corpo, ribaltando lo stereotipo della donna-oggetto nell’arte.
Così nel 1963 esordisce esponendo “Eye Body: 36 Transformative Actions”: fotografie che documentano l’azione dell’artista che aveva ricoperto il suo corpo di materiali come gesso, pittura, piume, grasso e serpenti vivi, con lo scopo di intensificare le percezioni dello spettatore. L’opera è stata definita oscena ma ancora più forte è stata la reazione a quella che è la sua opera più famosa e più importante per il discorso che stiamo affrontando: “Interior Scroll” del 1975.
L’artista, nuda e in piedi su un tavolo, legge un testo scritto su un rotolo di carta che tira fuori dalla propria vagina: si tratta di “Cézanne era un gran pittore”, testo che allude alla posizione marginale della donna nelle arti. L’azione risulta per molti destabilizzante, difficile da capire, ma in realtà la lettura del gesto è piuttosto semplice: l’organo femminile, da sempre simbolo del parto e della maternità, è ora mostrato come fonte di creazione artistica. La donna degli anni Settanta rivendica il suo diritto di fare arte e lo fa con gesti sconvolgenti. Il testo, inoltre, proveniente da dentro il corpo, allude a una dimensione interiore, a un’identità femminile che, finalmente libera dai condizionamenti esterni, acquista consapevolezza e cerca la forza necessaria per reagire alla manipolazione e all’oppressione subita della propria immagine.
Una simile riflessione era stata affrontata anni prima da Shigeko Kubota nei suoi “Vagina Painting”: letteralmente, dipinti realizzati cercando di controllare il pennello attraverso la propria vagina. Si tratta di una risposta alla tecnica del “dripping” di Jackson Pollock, divenuto simbolo della virilità del maschio americano e, per estensione, dell’idea dell’artista come individuo unico e maschile. Ma potrebbe essere vista anche come risposta alle cosiddette “Antropometrie” di Yves Klein, in cui corpi di modelle cosparsi di colore vengono utilizzati come pennelli. La donna, usata come strumento, ritrova con Kubota un ruolo attivo e la facoltà di controllare il proprio corpo. L’azione di “Vagina Painting” rievoca inoltre le perdite dovute al ciclo mestruale, grande tabù legato alla sfera femminile, circondato da un alone di mistero e di vergogna.
Il tema delle mestruazioni torna anche nell’ultima fase dell’esperienza artistica di Gina Pane che nel 1973 sigilla ed espone in una teca sette batuffoli di cotone che raccolgono le tracce del proprio sangue mestruale: chiara risposta, questa, alla “Merda d’Artista” di Piero Manzoni.
In un’azione performata un paio d’anni prima, dal titolo “Il bianco non esiste”, Pane si taglia superficialmente il volto. Lei stessa ricorderà:
«Avvicinai la lametta alla faccia. La tensione era palpabile ed esplose quando mi tagliai entrambe le guance. Tutti gridavano: “No, no, la faccia no!”. Avevo toccato un nervo scoperto: l’estetica delle persone.»
In questo modo l’artista porta allo scoperto l’imperativo della bellezza, del conformarsi a caratteristiche e canoni precisi dettati dalla società, la dipendenza dal bell’aspetto e il terrore di perderlo; la paura di vedere svanire la bellezza ad opera dei segni lasciati dallo scorrere del tempo sul proprio corpo. Ferirsi vuol dire allora ribellarsi a tutto ciò, a canoni e ideali, e rendere tangibile il dolore delle donne con la speranza di provocare, in quelle presenti nel pubblico e non solo, una profonda riflessione: di innestare un moto che porti a prendere posizione. I tagli di Gina Pane rivelano cosa c’è sotto: sotto le maschere, le apparenze, le imposizioni. Sotto il corpo.
Queste artiste diventano presto un punto di riferimento per molte altre della generazione successiva, a cominciare da Marina Abramović che nel 1974 si affaccia sul mondo dell’arte contemporanea con “Rhythm 0”.
«Sul tavolo vi sono settantadue oggetti che potete usare su di me come preferite, Io sono un oggetto».
Queste le indicazioni date dall’artista sullo svolgersi di una performance che la vede come oggetto inerte, passivo, sul quale il pubblico può agire senza restrizioni, avvalendosi anche dell’utilizzo di diversi oggetti che vanno da pettine e rossetto a catene e forbici, da miele e rose a un proiettile e una pistola. Succede di tutto e alla fine della performance – interrotta da alcuni spettatori preoccupati – l’artista si ritrova nuda (i vestiti sono stati tagliati), ferita, e con la pistola carica puntata contro.
Ma perché esporsi a tale rischio? Lo scopo di Abramović è quello di dimostrare come sia facile diventare violenti nei confronti degli altri. Il suo porsi come donna-oggetto, passiva e silente, impedisce al pubblico di comprendere la portata delle sue azioni perché lei appare consenziente. Tuttavia, per quanto immobile, la condizione dell’artista turba gli osservatori, tanto da sentire la necessità di creare un gruppo di supporto psicologico: con questa performance Abramović mostra la sofferenza di una condizione e rende impossibile volgere lo sguardo altrove.
A tal proposito Elaine Scarry ne “La sofferenza del corpo” scrive che l’unico modo possibile per far comprendere agli altri ciò che si prova, dato che «subire un dolore è essere certi, mentre sentir parlare del dolore è essere in dubbio», è che gli attributi del malessere vengano resi visibili, così che «la sensazione di sofferenza di una persona potrà essere conosciuta da una seconda persona».
Il corpo come identità
Il corpo è la dimensione attraverso la quale ci presentiamo al mondo esterno e, in quanto tale, diventa strumento per affermare e indagare le diverse identità di genere, quelle sessuali e quelle etniche. Identità che spesso si scontrano con quanto dalla società è compreso e accettato.
A esplorare la dimensione del genere sono artisti come Urs Lüthi, che comunica se stesso attraverso delle foto che immortalano la sua androginia indefinita, e Vito Acconci, che in “Conversions” cerca di trasformare il suo corpo maschile in uno femminile, nascondendo il pene fra le gambe e strizzando il petto.
Il Corpo fra l’Io e il Mondo
Col corpo ci muoviamo in un mondo che lo contiene e lo stesso succede a miliardi di persone. Mondo naturale che la già citata Gina Pane ama definire “Corpo ecologico”, corpo che appartiene a tutti e che l’uomo può scegliere di amare e risanare o distruggere. È su questo corpo che interviene nelle sue prime opere, come “Pierres depilacées” (1968), in cui l’artista sposta senza sosta sassi da una zona d’ombra a un’altra colpita dal sole: un gesto d’amore che consente anche alle cose che giacciono all’ombra di ricevere un po’ di calore. Un atto di tenerezza nei confronti di una natura ignorata e deturpata dal genere umano.
Il Corpo ferito: la guerra
Come si è detto, nella Body Art spesso il corpo viene ferito e attraverso le ferite si comunica un dolore che diventa denuncia di violenze perpetuate continuamente e silenziosamente sui corpi e negli animi delle persone.
Alla base di tutto sembra esserci una sofferenza, da cui nasce la voglia di riscatto: sofferenza generata dalla condizione in cui vivono le donne; sofferenza causata dalla mancanza di libertà; dal non sentirsi liberi di essere ciò che si è; sofferenza del mondo; sofferenza dei corpi martoriati dalla guerra.
Ecco che allora Carolee Schneemann si cosparge di interiora di animali morti per far riflettere sulla brutalità umana, che di guerra in guerra avanza in una storia che è un lungo e continuo strascico di sangue. Oppure Gina Pane, che dà voce al dolore della Guerra del Vietnam. O ancora Marina Abramović, che in “Balkan Baroque” (1997) si siede su un cumulo di 1500 ossa che ripulisce per cinque giorni, mostrando l’orrore e la sofferenza derivanti dalla Guerra nei Balcani, sua terra di origine: il sangue versato viene ripulito e con esso le coscienze, ancora più sporche.
La ferita come dono per l’Altro
«È a voi che mi rivolgo perché voi siete l’unità del mio lavoro: l’altro. Il corpo ha un ruolo fondamentale nel noi. Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il mio sangue, è per amore vostro: gli altri. Ecco perché tengo alla presenza delle mie azioni»
Con queste parole Gina Pane si rivolge alle altre donne, chiarendo le motivazioni dei tagli che durante le sue performance infligge al suo corpo.
È il 1973 quando in “Azione Sentimentale” l’artista si presenta di fronte a un pubblico femminile vestita di bianco, con un bouquet di rose rosse dal quale stacca le spine per conficcarsele in un braccio. Il sangue cola e le rose rosse vengono sostituite da rose bianche: la propria sofferenza, quella generata dalla difficoltà di giungere alla libertà d’amare e quella causata dalla fine di una relazione, incontra il dolore altrui e insieme fluiscono lontano. Come in “Il Bianco non esiste”, ogni ferita è denuncia, comunicazione, apertura all’Altro: un invito a unirsi a questa rivolta del corpo e dello spirito.
È liberazione, è mostrare ciò che di sincero si cela dietro l’involucro esterno senza timori, è un modo per accorciare le distanze tra gli uomini dialogando con le coscienze, rompendo la quiete dell’Altro. È, contemporaneamente, esternare il proprio dolore e far proprio quello del mondo: Gina Pane si ferisce, come un Cristo moderno, per fare da cassa di risonanza alla sofferenza dell’intera società.
Verrebbe quasi da parafrasare il Vangelo di Luca: “Questo è il mio corpo, lo rivendico per voi…”.
non c’è dittatura dello sguardo