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La seconda generazione che avanza: intervista a Tommy Kuti, il rapper afroitaliano
Dark Light

La seconda generazione che avanza: intervista a Tommy Kuti, il rapper afroitaliano

Quando risponde al telefono, Tommy ha una voce pacata e un marcato accento bresciano.

All’anagrafe fa Tolulope Olabode Kuti, Tommy Kuti è il suo nome d’arte e di professione fa il rapper.

Di origine nigeriane, è cresciuto a Castiglione delle Stiviere, ha studiato a Cambridge e si sente italiano al 100%, ma non dimentica il suo background, con cui impreziosisce i suoi pezzi, orgoglioso di queste due culture diverse alle quali appartiene.

È uno dei primi artisti di seconda generazione firmati da una multinazionale – Universal – ed è portavoce di tutti quei giovani che, come lui, hanno origini straniere ma si sentono in tutto e per tutto italiani.

Tommy nei suoi brani tratta con ironia tematiche attuali, quali il razzismo, la politica e la cultura pop, situazioni che ha vissuto in prima persona.
Le sue sonorità spaziano nei generi e rispecchiano le ispirazioni dei suoi ascolti.
Quello che ne esce è un melting pot musicale e una calzante fotografia del nostro Paese.

Sei un rapper di seconda generazione, ed è molto bello ci siano musicisti come te che inizino a passare messaggi ed essere punti di riferimento. Tu ti definisci, però, un artista diverso rispetto ai tuoi contemporanei, come mai?
Mi ritengo diverso in questa scena trap che sta spaccando e per la quale vedo un grosso riscontro a livello mediatico, prima di tutto perché ho un’età anagrafica diversa: sono nato nell’89, mentre la maggior parte di loro sono appena usciti dal liceo, hanno una certa rabbia, un’indole e una motivazione diversa nel fare canzoni.
Io mi sento più in dovere di parlare di certi temi e di fare in modo che la mia musica abbia anche un impatto sociale oltre che visualizzazioni e ascolti.

Ma scusa, cos’è la trap?
Da quando ho iniziato a fare interviste, ho realizzato che per la gente la trap è una cosa proprio staccata dall’hip hop, ma per me non è così.
Per me è un sottogenere dell’hip hop ma è comunque hip hop. Un sottogenere caratterizzato da un beat di base che ha un bpm leggermente più lento del solito che permette di cantare, di divertirsi di più con le melodie.
La trap dà più peso a metrica e flow piuttosto che al contenuto.
Questo è ciò che emerge dalla media dei rapper italiani che la fanno.
Per me è una questione di base, per esempio la canzone Cliché con Fabri Fibra ha vagamente sonorità trap. Io però con la trap faccio roba mia in cui parlo delle solite cose e non la vedo diversamente da altre canzoni rap.

Quando hai deciso di fare il musicista?
Ho iniziato ad ascoltare rap da adolescente, la carriera ho deciso di iniziarla nel 2011 quando ho finito l’università e sono tornato in Italia. Da lì ho iniziato la mia gavetta nella scena hip hop italiana.

I tuoi sono testi impegnati, seppur ironici. Parli di politica, società, razzismo, tematiche importanti che hai vissuto sulla tua pelle. Cos’è il razzismo? Come si può fare oggi per combatterlo e cosa possono fare artisti come te per aiutare le persone a reagire a questi fenomeni?
Il razzismo è quello che ti fa giudicare peggiore una persona diversa da te, che ti fa avere grandi giudizi infondati su di lei.
Ciò che ho realizzato dell’Italia oggi è che abbiamo un problema di ignoranza più che di razzismo, in quanto la gente non conosce la storia dei ragazzi come me.
Noi artisti di seconda generazione possiamo aiutare a farci conoscere dall’italiano medio e fargli conoscere il nostro universo. Mi rendo conto che le persone ascoltando le mie canzoni scoprano temi e ragionamenti che non avrebbe mai immaginato di poter fare.
Spesso, del resto, si parla, soprattutto tramite media, delle seconde generazioni in relazione alla criminalità, mai delle storie delle persone, dei ragazzi come me.

Sei stato prodotto da Paola Zukar, un’istituzione del rap. Quali sono i tuoi riferimenti in questo mondo?
Sono cresciuto con l’hip hop italiano, faccio parte di quella generazione che ascoltava hip hop quando quelli famosi erano Fibra, Club Dogo, Bassi Maestro, Mondo Marcio.
Nel periodo universitario ho avuto modo di scoprire il rap francese, infatti il mio rapper preferito è un parigino! Poi chiaramente ho ascolto anche l’hip hop americano…
Ovviamente parte del mio bagaglio musicale è anche africano, tutto ciò che mi hanno fatto scoprire i miei genitori e l’hip hop africano, che ho ascoltato crescendo.

In una tua intervista di quest’inverno ho letto che il rap italiano non è tanto ascoltato dai ragazzi di seconda generazione, come mai? Come la musica italiana può entrare nel cuore e nella vita di un ragazzo di seconda generazione?
Sai cosa? Ogni tanto penso a me stesso quando avevo sedici anni e ascoltavo i vari rapper: per quanto io fossi italiano, mi piacessero i rapper italiani, nello stesso periodo era uscito anche Amir, un rapper egiziano, e le storie che raccontava mi potevano interessare personalmente perché anche lui era un ragazzo di seconda generazione e potevo proprio sentirmi rappresentato da ciò che cantava.
Ciò che cambierebbe le cose sarebbe poter contare su un maggior numero di ragazzi di seconda generazione anche tra gli artisti più famosi, che hanno modo di farsi vedere.
Da quando ho visibilità e sto facendo il mio percorso artistico, tanti ragazzi, anche di seconda generazione, mi scrivono per dirmi che grazie a me possono trovare più coraggio per realizzare i loro sogni.
Chiaro, quando parlo dei ragazzi di seconda generazione che non ascoltano tanto il rap, intendo i ragazzi della mia generazione, della mia età. Per i ragazzi più piccoli ci sono più artisti che li rappresentano, vedi me, Ghali, …

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Le tue origini influenzano non poco la tua produzione.
Certo, il mio background è parte di me, e inevitabilmente, attraverso canzoni, sonorità e modo di esprimermi, può emergere facilmente.
Apprezzo molto che in quest’ultimo periodo in Europa tanti artisti di seconda generazione rimaneggino la musica africana e la mischino col rap e tirino fuori qualcosa di nuovo; questa cosa si chiama tipo afrotrap, ed è molto bello, va forte in Francia. Va forte anche in Inghilterra e in Olanda, dove ci sono artisti di origine africana come me che mischiano il rap con qualcosa di tradizionale del loro paese d’origine.
La contaminazione in generale mi piace, anche il mio rap è frutto di quello che ho ascoltato, della roba francese, americana, di tutte le mie esperienze.

Com’è l’Italia vista da occhi come i tuoi, di chi è andato via per un periodo e poi è ritornato?
Ho sempre voluto diventare un rapper famoso, quindi quando sono andato in Inghilterra a studiare non ho mai pensato che non sarei mai tornato, perché ho sempre voluto diventarlo qui.
È innegabile, quando vai all’estero inizi a pensare agli aspetti positivi del tuo Paese e gli dai maggiore valore. Trovo molto utile viaggiare, ti fa vedere le cose da altri punti di vista facendoti pensare anche alle cose che dovrebbero essere migliorate.

Hai lavorato con Fabri Fibra su un pezzo del disco, con chi ti piacerebbe collaborare?
Con Ghali? Ci sentiamo, spero si riesca a fare qualcosa insieme.
In generale: Marracash è il mio preferito dal punto di vista tecnico, Fabri Fibra è il mio preferito come artista.

Progetti per quest’estate?
Mi stanno chiamando a fare un sacco di date e mi stanno chiamando anche le università a parlare di integrazione e immigrazione. Anche questa è una bella soddisfazione, è un contesto in cui si riesce ad avere una conversazione con le persone che ti fanno capire le loro opinioni.

A uno studente del liceo come lo sei stato tu, che ancora nel 2018 viene bistrattato per le sue origini o il colore della pelle, che messaggio daresti?
Una cosa che mi sento sempre di dire ai più giovani è di guardare la mia esperienza. Penso a quelli che a scuola potevano prendermi in giro, bullizzarmi: a volte possono farci perdere l’autostima, ma dobbiamo trovare il modo di trovare dentro di noi il valore, capire la nostra importanza e che la nostra diversità non è negativa ma positiva. Il fatto di essere oltre che italiano anche africano significa che conosci un altro universo di linguaggi a cui ispirarti, differenti usi e costumi. Dobbiamo imparare a non credere a chi ci dice che la diversità è un danno.

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