Avevo diciassette anni quando, particolarmente orgogliosa, annunciai a mia nonna di aver capito cosa avrei voluto fare da grande: l’ostetrica. Lei, classe 1939, guardandomi con espressione disgustata rispose: “Ma perché vuoi fare quella roba lì? È una cosa sporca!”. Della presunta impurità attribuita ai corpi che mettono al mondo una nuova vita, degli aspetti celebrati e sviliti della maternità stessa, ma soprattutto della storia di quella professione, evidentemente, non sapevo ancora a sufficienza.
Quella che oggi conosciamo come ostetricia è una branca della medicina che acquisisce uno spazio di riconoscimento ufficiale in termini di studi universitari e di osservazione clinica strutturata in Europa occidentale intorno al 1800. Tuttavia, come emerge dagli studi della storica Nadia Maria Filippini, sin dal mondo antico le figure della levatrice e della guaritrice hanno sempre costituito un punto di riferimento per le donne, da secoli destinate a realizzarsi nella loro comunità e nella loro individualità attraverso il lavoro di riproduzione di altri esseri umani, in linea con la costruzione sociale secondo cui il massimo potenziale femminile può (e deve) esprimersi unicamente attraverso la maternità corporea. Proprio in virtù della capacità riproduttiva quale prerogativa femminile, la studiosa spiega, in parte, la costante oppressione esercitata non soltanto sui corpi delle donne, ma anche sull’operato delle levatrici.
Per secoli, infatti, la gravidanza venne considerata un fenomeno particolare, riguardante pratiche, rituali e specifiche forme di controllo collettivo, in un approccio che intrecciava medicina, religione e magia, di cui le levatrici erano le depositarie primarie. La loro competenza e manualità le rese figure stimate dall’intera comunità, il cui intervento non si limitava al momento del parto, ma le vedeva coinvolte con un ruolo ben più ampio in tutte quelle situazioni legate alla sessualità e alla salute delle donne, dal ciclo mestruale all’allattamento, dall’aborto ai casi di sterilità e di violenza sessuale.
Quella che però costituisce la loro attività centrale, ossia l’assistenza al parto, fu per lungo tempo caratterizzata dall’esclusiva presenza femminile nella scena, dall’espressione del dolore come un aspetto da valorizzare, e dal rischio di scivolare nell’evento opposto, la morte, con una serie di simbolismi e consuetudini che rendono il “far nascere” un’arte profondamente rispettata. Anche il momento dopo la nascita è contraddistinto da una particolare instabilità, considerato pericoloso sia per la madre che per la nuova vita messa al mondo, ritenute al tempo stesso impure e a rischio, con conseguenze ambivalenti sulla percezione della donna relativa al proprio corpo e all’esperienza fisica e spirituale della maternità, in una contraddizione limitante e deleteria che permane tuttora.
Un primo spartiacque rispetto a questa situazione si ebbe intorno al XIII secolo, quando le istituzioni ecclesiastiche e le autorità politiche del continente europeo gettarono le basi per il controllo sui corpi delle donne e sulla loro capacità riproduttiva, varando le prime leggi che condannavano l’aborto, spingendo quindi le levatrici a praticarlo illegalmente. Con il pretesto di prevenire e condannare tale atto, ma con l’intento effettivo di controllare la sfera sessuale e riproduttiva delle donne del tempo, di disciplinarne i corpi e di consentire l’avvento del capitalismo, iniziò quello che Mariarosa Dalla Costa definisce «the greatest sexocide recorded in history»: la caccia alle streghe, che vide la repressione principalmente di levatrici e guaritrici, in quanto donne indipendenti, rispettate, potenti e competenti, non disposte a sottostare agli uomini che volevano esercitare il loro dominio sui corpi delle donne. Ai roghi non bruciano soltanto le levatrici, ma anche le loro conoscenze e pratiche, per essere progressivamente sostituite da una nuova medicina, maschile (e maschilista).
A partire dal XV secolo iniziano ad essere emanati anche i primi regolamenti che impongono vere e proprie limitazioni alle levatrici, marginalizzando il loro operato in campo medico e rendendo l’accesso alla professione sempre più complicato, nonostante l’assenza di una controparte maschile in grado di ricoprire il loro ruolo.
È con l’avvento dell’Illuminismo che viene definitivamente introdotta la figura del “chirurgo ostetricante”, così come nuovi metodi, pratiche e strumenti, che vanno verso una medicalizzazione del percorso della nascita, una svalutazione del ruolo delle levatrici e una nuova concezione e rappresentazione del feto, seguita da una condanna esplicita da parte della Chiesa Cattolica di ogni forma di aborto. È il periodo in cui si diffonde la posizione supina quale unica opzione al momento del parto, in cui si introducono il taglio cesareo, l’episiotomia, il forcipe, e varie pratiche e strumenti con conseguenze potenzialmente dannose. Ha inizio un’azione di controllo sistematico sui corpi delle donne in gravidanza, esercitato a livello religioso, scientifico, politico e sociale, che ad oggi perdura.
Con la conclusione della Prima Guerra Mondiale e il relativo calo delle nascite, la questione demografica emerge con forza, in particolar modo nei contesti guidati da politiche nazionaliste, come nel caso dell’Italia. In tal senso, il ruolo delle levatrici costituisce una risorsa professionale cruciale e viene istituito un vero e proprio registro, l’Unione fascista delle levatrici, per supervisionarne l’operato. Viene loro vietato di occuparsi di aborto e altre questioni legate alla salute delle donne, che devono essere invece gestite dal medico-chirurgo, uomo, ça va sans dire. Tuttavia, la maggior parte delle levatrici non accetta il censimento e continua a praticare. Dalla loro resistenza ha inizio una nuova caccia e, senza alcuna prova, 236 tra le più qualificate levatrici vengono mandate al confino con l’accusa di agire contro gli interessi nazionali. Nel suo “Le segrete manovre delle donne. Levatrici in Italia dall’Unità al fascismo”, la storica Alessandra Gissi sottolinea che nessun’altra categoria professionale viene colpita da provvedimenti simili durante il periodo fascista.
Negli anni seguenti, le esperienze di gravidanza, parto e maternità subiscono evoluzioni in diverse direzioni, con un approccio che tende alla medicalizzazione e alla spersonalizzazione del percorso, rinforzando l’ambivalenza di tale vissuto, contrapponendo l’esperienza fisica a quella spirituale, rinnegando gli aspetti strettamente corporei e valorizzando, invece, quelli relativi al ruolo emotivo e alla funzione sociale. Si diffonde una sorta di rifiuto rispetto alle immagini di sofferenza, dolore, fluidi e sangue legate al parto, un evento che viene rimosso dall’immaginario comune e che va a costituire un nuovo tabù, una cosa sporca.
La violenta introduzione del chirurgo ostetricante e la relativa espropriazione della professione dalle mani delle levatrici porta con sé conseguenze decisive nell’ambito della salute sessuale e riproduttiva delle donne che giungono fino al contesto attuale, rinforzando una costruzione della medicina ostetrica (e ginecologica) fondata su e dominata da uno sguardo esclusivamente maschile.
Significa che oggi di ostetricia e ginecologia se ne dovrebbero occupare solamente le persone con utero? Non necessariamente, si tratta di una questione di genere nella sua costruzione primordiale, o meglio, in relazione all’appropriazione che i medici ne hanno fatto e al modo in cui l’ambito ostetrico-ginecologico è stato strutturato e definito in origine, ma non rispetto all’esercizio della professione in sé. È proprio quel modo ad avere strettamente a che fare con dei rigidi ruoli di genere e un’idea ben chiara di controllo sui corpi delle donne.
Tuttavia, tale modello definito e dominato dagli uomini, già messo in discussione dalle levatrici nei secoli scorsi e problematizzato nuovamente con forza dai femminismi degli anni Settanta (pensiamo ad esempio alla raccolta Our Bodies, Ourselves) racconta non soltanto di un esercizio di potere sui corpi delle donne, ma di una vera e propria costruzione ex novo della salute femminile, in particolare quella riproduttiva, totalmente slegata non solo dai bisogni e dalle necessità reali delle persone con utero, ma anche da una ricerca scientifica costante. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è reso evidente dalla scarsità di fondi dedicati non solo allo studio delle tematiche legate alla salute femminile nello specifico, ma alla materia in senso più ampio in una prospettiva di genere ed intersezionale.
C’è, infine, un’ulteriore considerazione da fare. Da un lato, il ruolo dell’ostetrica è stato svalutato, incanalandone l’operato in tutte quelle dinamiche patriarcali che, nell’ambito medico, trovano espressione nel fenomeno della violenza ostetrica, figlia del controllo sui corpi e di quell’esercizio di potere funzionale alla costruzione di una femminilità debole e accondiscendente. Dall’altro, la percezione di una professione “al ribasso”, reputata di mera assistenza, avvertita come apparentemente slegata dalla medicina in senso stretto in quanto avvolta da un passato di magia, ha aperto le porte alle figure più disparate e ad una mercificazione dei servizi legati alla gravidanza e al parto – lucrando sulle difficoltà, sui dubbi e sulle paure relative a queste esperienze e trasformando delle potenziali risposte (spesso senza alcun fondamento scientifico) in meri oggetti di consumo – come ha dimostrato con le sue recenti inchieste Francesca Bubba.
Forse, è necessario chiedersi in che misura l’evoluzione di questa professione sia arrivata fino a noi, in che modo siano stati costruiti stereotipi e pregiudizi in quest’ambito, quanta di questa conoscenza sia stata ereditata dall’esperienza delle donne e quanto, invece, sia stato appositamente costruito dalla medicina “maschile” dalla fine del Settecento in poi. Quanta potenza è andata perduta? Sottratta? Incenerita? Rispondere a queste domande non richiede solamente uno sforzo di indagine dal punto vista storico e scientifico, bensì sottintende l’esigenza di mettere in dubbio le modalità con cui è stato istituito un intero sistema e, se necessario, di decostruirlo e rimetterlo in piedi – finanziando la ricerca, offrendo un nuovo approccio formativo privo di stereotipi, garantendo condizioni di lavoro dignitose, restituendo autonomia a questa professionalità e, soprattutto, investendo nella sanità pubblica – in una maniera che permetta alle persone che scelgono di vivere le esperienze della gravidanza e del parto di affrontarle nelle migliori condizioni possibili, che ci consenta di riprenderci davvero i nostri corpi, di poter scegliere il meglio per loro, di conoscerli fino in fondo, di poterli abitare consapevolmente nel nostro occupare il mondo.
In tutto ciò, se ve lo steste chiedendo, ostetrica alla fine non lo sono diventata.