Dopo una laurea in Lingue e Culture Moderne all’Università di Pavia, dove ha studiato inglese, tedesco e portoghese; una laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extra Europee presso l’Università Statale di Milano con una tesi dal titolo «Traduzione e genere: approcci femministi, transfemministi queer e postcoloniali»; e numerosi articoli accademici sul tema del genere e della traduzione pubblicati su importanti riviste di settore, Laura Fontanella oggi cura la comunicazione della casa editrice Settenove, insegna lingua e letteratura inglese in un istituto superiore e da due anni porta avanti il laboratorio Traduzione Transfemminista Queer – giunto alla sua terza edizione – in cui affronta un nuovo approccio traduttologico che mira all’inclusività.
Con Laura abbiamo parlato di traduzione in senso ampio, di cosa sia la traduzione transfemminista queer e del valore politico e culturale che essa ha.
La tua attività di traduzione ti ha insegnato qualcosa sul rapporto tra linguaggio e corpo? O piuttosto il sapere qualcosa su questo rapporto ha informato il tuo modo di lavorare sulle traduzioni?
Studiare traduzione mi ha cambiato la vita. Il mondo della formazione – e spesso anche quello del lavoro – ci convincono del fatto che tradurre non sia altro che una mera trasposizione di parole da un codice linguistico all’altro. Le lingue, in questa visione semplicistica delle cose, non solo vengono mostrate come completamente congruenti le une sulle altre ma sono anche intese come scatole chiuse, entità dai confini ben delimitati, piccoli Stati-nazione i cui margini sono identificabili con indubbia chiarezza: la realtà delle cose non potrebbe essere più differente. Tradurre significa manipolare, significa metter mano, cambiare, riscrivere, trovare un corrispettivo – o almeno ciò che più vi somiglia nell’altra cultura d’arrivo. È un processo culturale e soprattutto politico: quando traduciamo, le parole e i loro significati – e il loro non essere neutrali – vengono immesse in un altro sistema, anch’esso non neutrale. Bisogna essere estremamente consapevoli del potere delle parole, della loro storia e delle conseguenze che queste genereranno una volta inserite in un altro contesto – nonché dei rapporti di forza e di potere tra una lingua e un’altra.
Ad ogni modo, tradurre in una modalità dichiaratamente transfemminista queer vuol dire prestare attenzione ai fenomeni di omissione, invisibilizzazione, erosione delle donne e delle soggettività LGBT+ nel processo di traduzione. Questo, purtroppo, accade spesso perché i traduttori e le traduttrici non hanno alcuna formazione in merito e le stesse case editrici non sono interessate a immettere sul mercato un prodotto che abbia riportato alla luce queste dinamiche. Tradurre in questo modo mi ha insegnato a comprendere che anche tra lingue e codici linguistici esistono gerarchie di potere e che quelle gerarchie vanno abbattute e decostruite: esse generano, ripetono e riproducono violenza a livello simbolico da una lingua all’altra, da una cultura all’altra. Tradurre in modo transfemminista mi ha insegnato che ogni traduzione – anche da linguaggio verbale a corporeo – si basa su una scelta politica. Quanto di quello che riusciamo a dire siamo poi anche in grado di tradurre corporalmente?
In particolare, credo che, data la cultura eterocispatriarcale in cui ancora oggi nostro malgrado viviamo, il linguaggio dell’affettività sia quello che risulta difficile tradurre – sia in una direzione sia nella sua contraria. Quanto è difficile dare un nome alle proprie emozioni e saperle tradurre nel linguaggio corporeo? Quanto è complesso tradurre una modalità corporea, il desiderio materiale di toccare, baciare, accarezzare in parole – e in richieste? Quanta frustrazione produce l’incepparsi di questo meccanismo di traduzione – specie nei maschi che, per loro formazione, vengono abituati a non parlare dei propri sentimenti né a manifestarli? Quali sono le drammatiche conseguenze che si sprigionano dietro questa incomunicabilità? La traduzione, come si evince, è uno strumento interessante dai contorni molto più sfumati di quanto si pensi – in grado forse, se utilizzata come strumento politico, di cambiare le parole, i significati e di conseguenza la realtà tutta.
Secondo la tua esperienza, cosa si perde in una traduzione che non rispetta la differenza di genere tra autore/autrice e traduttore/traduttrice?
Tradurre in modo transfemminista queer non vuol dire solo tradurre un testo facendo emergere le soggettività oppresse – siano esse donne o soggetti LGBT+ – nel testo d’arrivo ma significa tenere conto anche dell’autorialità che ha editato quel testo, di chi quindi lo ha pensato e scritto. Le donne, che sono state storicamente oppresse dal sistema editoriale, hanno sempre faticato a essere pubblicate, figuriamoci tradotte in altre lingue. Questo ha generato un ulteriore gap tra autori e autrici, gap che solo oggi si sta cominciando a sanare dando vita e luce a quegli scritti di donne rimasti per troppi secoli nei cassetti.
Anche le soggettività LGBT+ hanno avuto un destino analogo. Moltissimi testi in prosa e in poesia del passato non furono tradotti a causa del loro contenuto omosessuale o, generalmente, non conforme ai parametri sessuali e di genere di quell’epoca e di quella società. Coscienti di queste dinamiche d’oppressione che hanno avuto luogo nel passato – e che ci colpiscono, seppur attraverso metodi e modi diversi, anche oggi – chi traduce autorialità che si definiscono donne e\o soggettività LGBT+ deve avere ancora più cura, riguardo e sensibilità nell’atto di trasposizione. Tra le mani avrà infatti una storia che è dovuta passare attraverso molteplici resistenze e ostacoli, che è stata costretta ad attraversare violenze culturali e istituzionali, stereotipi e limitazioni sessiste e\o omobitransfobiche. C’è bisogno di una traduzione che riconosca le difficoltà che quelle persone hanno subito e trascorso per portare alla luce il loro operato. C’è bisogno di una traduzione transfemminista queer che comprenda le dinamiche profonde che hanno investito chi ha scritto – e che ne tenga conto.
Una traduzione che, al contrario, non rispetta il genere dell’autorialità o il suo orientamento sessuale ha molto da perdere. Immaginando che in un dato testo siano presenti dei tratti autoreferenziali, legati al genere e alla sessualità, il loro mancato riconoscimento o la loro voluta omissione è un fatto grave sia a livello testuale che politico. Quel che si rischia di perdere in traduzione non solo è l’identità autoriale, di uno o più personaggi, ma è la forza del testo stesso, il suo senso, il suo messaggio. Si tratta di un’importante mutilazione letteraria.
Ci sono testi che non risentono di questa differenza? Se sì, quali?
Tutti i testi sono scritti all’interno di un sistema che genderizza e sessualizza i corpi e le autorialità. Non esiste un testo che si possa dire neutro perché la neutralità in ambito linguistico – e quindi in ambito reale – non esiste. Un testo scritto da un uomo, che si identifica con il genere maschile, di classe media e bianco avrà in sé una serie di riflessi connessi con la propria identità. Lo stesso vale per tutte le altre soggettività esistenti. Bisogna sapere non solo come tradurre – e come posizionarsi politicamente rispetto a quel contenuto – ma è necessario sapere chi si sta traducendo e, in merito a questo, compiere delle scelte.
Ci sono dei suggerimenti sempre validi per riconoscere una buona traduzione da una non buona, non essendo specialisti?
Una buona traduzione è quella in cui, leggendo, bisogna spostarsi, muoversi verso l’altra cultura, verso l’altra lingua. È una traduzione che non ci facilita niente, che non ci lascia comodi immersi nelle nostre poltrone ma che ci costringe a viaggiare, a conoscere, ad aprire la nostra mente. Una traduzione che lascia alcuni termini in corsivo perché intraducibili non sta pigramente lasciando il compito di tradurre quelle parole a noi, ma ci sta invitando a prendere in considerazione la mancata coerenza tra l’inglese e l’italiano, ad esempio. Ci sta invitando a capire che le lingue difficilmente combaciano le une sulle altre, a partire dai loro sistemi di rappresentazione della realtà. Una buona traduzione non ci lascia stare, ci obbliga a seguirla, in quell’altro Paese, oltre confine, nelle intercapedini, nelle zone d’ombra; ci sprona a prendere in esame le categorizzazioni dell’alterità, i suoi principi, i suoi valori senza assumere una postura giudicante. Una buona traduzione è una traduzione visibile: si deve capire che quel testo è tradotto, che non è nato qui, in questo posto o in questo tempo. Si deve percepire l’estraneità di quello che stiamo leggendo perché solo in questo modo potremo dire di aver imparato davvero qualcosa di nuovo.