“Kublai”, che racconta le vicessitudini di due amici e i loro dialoghi, è l’omonimo lavoro di studio dell’originale progetto solista di Teo Manzo, artista milanese in continua evoluzione.
Gli abbiamo fatto qualche domanda sulle sue influenze musicali, su come i suoi progetti sono cambiati negli ultimi mesi e sull’amicizia.
Nella scelta del tuo nome c’è lo zampino di Italo Calvino. Quali sono le influenze, non solo musicali ma più in generale nell’ambito artistico letterario, che convogliano sulla tua musica, sulla scrittura dei testi, sugli arrangiamenti, sui rimandi e i significati che desideri connotino le tue canzoni?
Le influenze presenti in Kublai sono del tutto incoscienti, assolutamente fuori dal mio controllo. Quindi non posso rispondere in fede a questa domanda. Posso dire, come tutti, di aver avuto dei grandi amori nell’adolescenza: tra questi c’erano, sopra tutti, Fabrizio De André e Italo Calvino, ma non riesco a trovare questi riferimenti in ciò che faccio, né mi interessa farlo.
A quali artist* del panorama attuale nostrano e straniero ti senti particolarmente vicino per il modo in cui ti approcci alla musica?
Non vorrei attribuire ad altri cose che, non conoscendoli, non posso sapere. Ci sono ovviamente diversi artisti che stimo e seguo con grande attenzione, ma l’approccio alla musica è qualcosa di intimo, che riguarda l’infanzia, i primi ricordi, le esperienze dei singoli. Alcuni vivono la musica come corredo mentale dell’immaginazione, la associano ad altri sensi, spesso alle immagini; altri, come me, hanno un approccio tattile e cieco, legato alla vibrazione del corpo e all’istinto del canto. Altri ancora la idealizzano in maniera più fredda e geometrica… Tutti questi impulsi però possono produrre esiti molto diversi come molto simili, è impossibile predirlo. Ecco perché mi è difficile riconoscere qualcuno che abbia un approccio simile al mio.
Quali sono le produzioni musicali che fatichi ad ascoltare e a comprendere? Che cosa un brano altrui deve possedere per funzionare, per conquistarti?
Ho il grande limite, in fondo, di essere uno snob. In questo periodo ascolto pochissima musica e solo su consiglio di persone fidate. Non è sempre stato così, ma al momento siamo in una bolla conformistica forse senza precedenti. In generale, non sono attratto dalla sciatteria programmatica, dall’abbassamento demagogico della proposta. Sono lontano dall’idea, tra l’altro molto vecchia, del blandire il pubblico con la promessa di assomigliargli. Non so se l’arte abbia funzioni pedagogiche o terapeutiche ma, se mai le avesse, verrebbero disinnescate da questa concezione, quella del “sii te stesso che tanto ti vengo incontro io!”. Questo è il “sottotesto” di gran parte della musica (e non solo), a prescindere dai generi. In una parola, per conquistarmi deve esserci la grazia, e non c’è quasi mai. Infine, non amo la musica quando è funzionale alla voce, che tracima dal mix, straparla, riferisce, dice cose di scarso interesse. Anche questa caratteristica non ha cittadinanza in un genere specifico: è piuttosto trasversale.
L’amicizia è al centro di “Orfano e Creatore”, il singolo che anticipa il disco appena uscito: ogni rapporto di amicizia si caratterizza di ritmi, modalità, empatie differenti. Pensando alle persone che senti più amiche, quali sono le peculiarità, le tre parole con le quali definiresti il concetto di amicizia?
Nella mia esperienza l’amicizia è impegno, sforzo, persino fatica. L’amicizia adulta non è un congegno che funziona da solo, per miracolo. Va vissuta e custodita con intensità, finché c’è tempo.
Come le restrizioni che abbiamo vissuto e stiamo vivendo hanno fatto bene al nostro modo di concepire, gestire i rapporti umani e ci hanno permesso di migliorarci?
Personalmente mi ritengo fortunato, ma credo che le restrizioni di cui parli abbiano fatto molti danni, soprattutto alle persone che già lambivano il baratro e hanno ricevuto una bella spinta. Non sto parlando del contesto economico, di cui francamente mi interessa poco, parlo della salute e della solitudine degli individui. Da un punto di vista sociale, però, credo che la comunità abbia guadagnato in empatia, in coscienza dell’impatto delle nostre azioni su quelle, limitrofe, del prossimo. Chi fa le barricate sulle restrizioni o non capisce o, appunto, non sta bene. Poi, per tornare al mondo della cultura, le pause fanno benissimo agli artisti. Si ricomincia con più lucidità.
Che ruolo la musica che, soprattutto nella sua accezione di live, è stata totalmente annichilita dalla situazione attuale, ha assunto rispetto a prima dell’emergenza pandemica? È cambiato qualcosa nella sua fruizione, nella considerazione, da parte delle persone, a tuo parere?
Onestamente non ho notato cambiamenti, ma forse non ho abbastanza elementi per valutare la questione. Posso testimoniare, in qualità di performer, che non poter cantare è stato alquanto mortificante. Il dato positivo è che ora lo sappiamo: abbiamo più chiaro quant’è importante l’aria tra chi suona e chi ascolta. Proviamo a tenerlo a mente.
Come sono cambiati invece i tuoi piani musicali, i tuoi progetti legati al disco in uscita nel breve-medio termine?
Sono cambiati molto. Ho annullato il concerto di presentazione e ho rinunciato, per il momento, a suonare dal vivo questo disco. Come dicevo, però, non mi lamento; da musicista sono abituato a vivere alla giornata da ben prima della pandemia e capisco che non tutti abbiano la fortuna di avere questo callo. Mi spiace un po’ per Kublai, che è un progetto nato per il palco più che per la discografia. Ci sarà modo di rifarsi più avanti.