Articolo di Natasha Vagnarelli
New York, luglio 1992.
Erano passati pochi giorni dal gay pride, il tempo avrebbe continuato a scorrere tranquillamente, le persone avrebbero continuato a camminare lungo il molo, se qualcuno non avesse visto un corpo galleggiare verticalmente nel fiume Hudson.
Suicidio, disse la polizia. Il caso venne archiviato in fretta, senza particolari indagini, senza ascoltare (non sentire, perché sentire lo avevano fatto) testimoni che dicevano di aver visto una ferita sul capo di quel corpo, testimoni che avevano sentito un uomo vantarsi di aver ucciso quella persona.
Venne creato un umile ma sentito memoriale per quella persona e amici, conoscenti, sostenitori iniziarono a marciare, a chiedere giustizia per quel caso archiviato senza interesse, per quell’ennesima prova che le discriminazioni erano vere, che alcuni umani erano considerati “più umani” degli altri.
Solo nel novembre del 2012 il caso venne riaperto come possibile omicidio.
La persona per cui quella gente marciava, la persona la cui morte aveva lasciato una ferita irreparabile era Marsha P. (Pay it no mind) Johnson.
Ma chi era, Marsha P. Johnson?
Era un’attivista LGBT, una sex worker, un’icona.
Marsha si identificava variabilmente come gay, come travestito e come “queen” (riferendosi al termine drag queen). Secondo Susan Stryker, professoressa di studi sul genere e sulla sessualità all’Università dell’Arizona, l’espressione di genere di Johnson potrebbe essere definita come “genere non-binario” in assenza dell’uso del termine transgender da parte di Johnson, termine che all’epoca non era molto diffuso.
Quando disse a sua madre di essere gay, la risposta che ottenne fu: “Essere omosessuali è essere peggio di un cane”. In un’intervista, dichiarò di essere stata vittima di abuso, da giovane, da parte di un adolescente.
Non aveva soldi per vestirsi con abiti costosi, eppure si esibiva come drag nei locale, senza alcuna vergogna. Si prostituiva per guadagnare, ma non era abbastanza per potersi permettere una vita tranquilla, agiata. Una notte, una fredda notte, chiese ospitalità ad un uomo che poi divenne il suo coinquilino per dodici anni, Randy Wicker.
Si scontrò con la polizia, sostenendo che degli agenti avessero ucciso quello che lei chiamava suo marito, nonostante all’epoca i matrimoni gay fossero illegali negli USA.
Marsha era generosa e calorosa, aveva avuto una vita difficile e per questo soffriva di crisi mentali, ma non si abbatteva mai. Marsha era una combattente.
Per questo nessuno poté credere al suicidio. Per la sua amica Sylvia Rivera, era impossibile, per Randy era impossibile.
Marsha era davvero una combattente. Tra le prime drag queen a frequentare lo Stonewall Ill, fu identificata come una delle prime tre persone che iniziarono la rivolta contro la polizia.
Si unì al Gay Liberation Front, partecipò alla prima manifestazione Christopher Street Liberation Pride. Lottò nella Weinstein Hall della New York University, dopo che l’amministrazione cancellò un ballo perché sponsorizzato da un’organizzazione gay.
Poco dopo Johnson, insieme all’amica Sylvia Rivera, fondò l’organizzazione Street Transvestite Action Revolutionaries (STAR), inizialmente chiamata Street Transvestites Actual Revolutionaries.
Marsha era anche un’icona. Venne fotografata anche da Andy Warhol, si batté nelle campagne contro l’AIDS, apparve cantando Love nella produzione The Heat delle Hot Peaches.
E Marsha è ancora un’icona.
RuPaul l’ha definita “la vera Drag Mother”. Nel 2018 il New York Times pubblicò per lei un necrologio. Il documentario del 2012 Pay It No Mind – The Life and Times di Marsha P. Johnson presenta alcune parti di un’intervista del 1992 a Johnson, che è stata girata poco prima della sua morte. Molti dei suoi amici del Greenwich Village sono stati intervistati per il documentario. Il documentario del 2017, The Death and Life of Marsha P. Johnson (disponibile su Netflix), segue la donna trans Victoria Cruz del Progetto Anti-Violenza mentre investiga sull'”omicidio” della Johnson.
Marsha appare anche come personaggio in due film drammatici basati su eventi reali, tra cui Stonewall (2015), in cui è interpretata da Otoja Abit e Happy Birthday, Marsha! (2016), dove è interpretata da Mya Taylor. Entrambi i film sono interpretazioni creative, ispirate alla rivolta di Stonewall.
L’artista Anohni ha reso omaggio a Johnson, chiamando la sua band pop barocca Antony and the Johnsons e dedicando a lei l’opera The Ascension of Marsha P. Johnson (1995).
Oggi, a suo nome, è stato creato il Marsha P. Johnson Institute, la cui missione è di creare un punto di ingresso cruciale per le donne trans nere e le persone gender non conformi per ottenere le competenze e le risorse finanziarie necessarie a sostenere la fine della violenza contro tutte le persone transgender.
Marsha incarnava tutto ciò che la società dell’epoca non accettava: era una persona facente parte della comunità LGBT ed era nera. Ma a soli 23 anni Marsha decise che avrebbe contribuito a cambiare il mondo.
Per tutto questo, Marsha P. Johnson merita spazio.
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Da completo ignorante su questi temi, trovo incredibile il vostro lavoro.
Il personaggio di Marsha deve senz’altro avere il giusto riconoscimento e il giusto spazio. Approfondirò l’argomento, poiché sono esempi come il suo che spingono in avanti tante, tante persone!