Articolo di Marika Ambrosio
Questo articolo si rivolge a tutte le persone – in special modo alle donne – che non danno importanza alle piccole cose che la vita può donare loro, solo perché non gli sono mai state negate. A tutte le persone che non si rendono conto della fortuna di vivere una “vita normale”. Ognuno combatte con i piccoli problemi della vita quotidiana, vero, ma finché il benessere fisico e l’accettazione sociale ci accompagna, è tutto risolvibile. Oggi raccontiamo, attraverso un’intervista, la storia di Vania Mento. Questa intervista porta la sua firma, ma dà voce ai dolori e alle parole di tutte le donne che ancora non hanno trovato il coraggio di gridare a pieni polmoni che l’endometriosi esiste.
Vania è una donna di 45 anni, vive a Vercelli ed è stata licenziata in seguito alla sua richiesta di part-time, poiché la malattia non le permetteva di sostenere un lavoro full time.
1. Ciao Vania, ci vuoi illustrare il tuo percorso di scoperta della malattia e di come questa abbia influito sui tuoi rapporti interpersonali?
Il percorso di scoperta della malattia è stato lungo e doloroso perché, non conoscendo questa patologia, pensavo di non essere realmente “malata”, ma ero convinta di avere problemi comuni a tantissima gente. Mi ero abituata al dolore. Tutto ciò ha influito negativamente in tutti i rapporti interpersonali in quanto ho passato anni praticamente chiusa in casa per i continui malesseri. Lavoro e casa. Questa era la mia vita. Ti incollo la storia pubblicata per gli approfondimenti medici:
«Ho sempre avuto un ciclo mestruale doloroso, fin da ragazzina. Ricordo che stavo a casa da scuola tutti i mesi e mi sentivo dire: che sarà mai, tutte hanno il ciclo, ma lei ne fa proprio un dramma! Verso i diciotto anni ho iniziato ad assumere la pillola e i dolori sono diminuiti un po’, erano più sopportabili e la mia vita è proseguita tra alti e bassi. Ho smesso la pillola verso i trentasei anni, per svariati motivi. Poco a poco è iniziato il mio calvario. Il ciclo è diventato dolorosissimo, un incubo. Ogni mese era sempre peggio: c’erano giornate in cui mi mettevo un fazzoletto in bocca per non urlare e mi facevo cinque iniezioni di Toradol per avere un po’ di tregua. Nel frattempo, è iniziata la stitichezza. Io non avevo mai avuto problemi nell’evacuazione, eppure diventò un incubo. Andai da un gastroenterologo, feci una colonscopia e mi dissero di provare con dei lassativi. Quindi lavoravo tutta la settimana e il sabato prendevo i lassativi. Il dolore nell’evacuare era così forte che perdevo i sensi. Non pensavo fosse un problema ginecologico, quindi mi abituai a questa vita di dolore, con rassegnazione. Un giorno, il ciclo iniziò e non smise più, quindi prenotai una visita ginecologica. Era il giorno del mio quarantesimo compleanno. Il medico mi visitò, mi fece un’ecografia e mi disse: Lei ha l’endometriosi. Endometriosi??? E cos’è???? Mai sentita. Mi disse che dall’ecografia vedeva una massa enorme diffusa ovunque: utero, ovaie, intestino e mi consigliò di contattare un centro specializzato per la cura di questa patologia. Mi consigliò di farlo in fretta e mi nominò un paio di centri. Intanto la malattia era peggiorata velocemente: avevo febbre continua, perdite di sangue, la gamba sinistra bloccata e non mangiavo più perché il dolore dell’evacuazione era insopportabile. Presi appuntamento a Peschiera del Garda, uno dei migliori centri italiani per la cura dell’endometriosi e arrivai già provvista di risonanza magnetica, come da loro consiglio. La visita fu una mezza sentenza di morte: endometriosi 4° stadio invalidante, diffusa ovunque, intestino, utero, ovaie, legamenti, nervi sacrali, vescica. Il medico mi parlò di resezione intestinale, di un sacchetto per le feci che avrei dovuto portare temporaneamente. Mi disse che avevo poco tempo, la malattia stava intaccando il rene sinistro, l’avrei perso. Ero smarrita, piangevo.
Ventisei giorni dopo entravo in sala operatoria, pesavo quarantadue chilogrammi. Sei ore di intervento: resezione intestinale, asportazione ampolla rettale, resezione vescica, asportazione parziale uretere sinistro, legamenti utero-sacrali, utero e vagina, pulizia ovaie, intervento ai nervi sacrali, raschiamento osso sacro. La malattia aveva avvolto anche quello. Rimasi in coma farmacologico per trentasei ore. Mi risvegliai con la stomia, la cosa più dura da accettare. La più grande lezione di vita che io potessi mai ricevere. Uno shock che mi ha cambiata per sempre. L’ho tenuta un paio di mesi e poi sono stata ricanalizzata. Un anno dopo, mi è stato inserito un neuro stimolatore nella schiena perché i miei nervi sacrali erano stati così danneggiati dalla malattia che non avevo più lo stimolo per evacuare e quindi assumevo lassativi in continuazione. Sono stata quattro mesi con un macchinario attaccato esternamente al mio corpo, tenuto da una cintura, con i fili che entravano nella schiena e si agganciavano ai nervi sacrali. Dopo questo periodo di prova, mi è stato impiantato il neuro stimolatore definitivo, all’interno della schiena. Devo cambiarlo ogni quindici mesi. Ho rinunciato a tutto. Non posso più praticare sport, sollevare una scatola, piegarmi, fare una torsione, un salto. Mi è stata riconosciuta una invalidità del 75% e l’handicap. Purtroppo, in tanti non hanno creduto alla gravità della mia malattia, al mio dolore. Mi presento bene, sono una donna piacevole, curata, vestita bene e questo per tanti significa che non posso stare male. Eppure il dolore che ho patito e che patisco è inimmaginabile.
Ho subito per anni battute maleducate, discriminazioni e trattamenti ingiustificabili. Mi è stato ripetuto mille volte che “prendevo ‘sta cosa un po’ troppo sul serio”. Quando mi è stata riconosciuta l’invalidità, sono iniziate le risatine e i dispetti. Infine, il licenziamento. L’endometriosi ti lascia senza fiato, sola, incompresa, perché non si vede. Fuori sei bella, dentro hai l’inferno.
2. Come vivi oggi la tua relazione con la malattia?
Oggi mi trovo obbligata a convivere con questa patologia perché non c’è cura. Sono depressa con un disturbo dell’adattamento certificato da uno psichiatra, conseguenza della malattia. Sono infelice perché vivo una vita che non avrei mai voluto vivere, avevo altri progetti.
3. La cosa peggiore a cui hai dovuto rinunciare?
Ai miei sogni, ad una famiglia, a poter compiere le cose che per la maggior parte delle persone sono normali. Non posso più giocare a tennis.
4. In una società ancora un po’arretrata come la nostra, in cui all’apice della vita di una donna c’è la maternità, che effetto e che emozioni ti provoca la consapevolezza di non poter più diventare mamma?
Per questa domanda ti invio la lettera che ho scritto alla mia bambina che non nascerà mai:
5. Come hai scoperto la pagina e il progetto “Invisible Body Disabilities” e che benefici ti ha portato?
Ho scoperto la pagina il 3 dicembre 2016, giornata mondiale delle disabilità invisibili. Ho digitato su Facebook queste parole e mi è apparsa la pagina. Ho ricevuto migliaia di messaggi di conforto da parte di chi non conosceva o sottovalutava la mia malattia. Ho aperto gli occhi di migliaia di persone. Penso che questo progetto sia fantastico. Vorrei contribuire a far crescere la pagina e penso di esserci un pochino riuscita. La mia storia ha avuto migliaia di condivisioni.
6. Cosa consiglieresti alle persone che, come te, si ritrovano a dover lottare per veder riconosciuto il proprio dolore?
Consiglio di diffondere il proprio messaggio, di non nascondersi, di non vergognarsi del proprio stato. Io mi sono scontrata con dei datori di lavoro ignoranti e meschini. Ho lottato con le unghie per i miei diritti e ho perso il lavoro. Lo rifarei comunque. Non permetto a nessuno di giudicare il mio stato di salute. Vedo questo come una missione e mi metto in prima linea anche per tutte le altre donne malate di endometriosi. Combatto per loro. Ci metto tutti i santi giorni la faccia.
Ringraziamo Vania per la forza e la collaborazione. Speriamo che la sua voce riesca a dar coraggio a chi ancora non ne ha trovato e invitiamo tutte le donne a non tacere e a non vergognarsi del proprio dolore.
#endometriosiesiste