Quando si parla della questione migratoria si rimane spesso ancorati all’impersonale, alle notizie di sbarchi e naufragi o al problema della discriminazione del colore della pelle. Il documentario Libertà di Savino Carbone ci dà uno sguardo diverso, più vicino alle persone direttamente coinvolte. Ci ricorda che ogni migrante è una persona con una voce e una storia, una propria individualità e sfide personali, oltre che collettive.
Questa storia non si limita alla discriminazione del proprio colore di pelle e al proprio essere persone migranti. Come nel caso dei protagonisti di Libertà: B. e C., un ragazzo e una ragazza che arrivano in Italia cercando aiuto, libertà e amore. Fuggono lui dal Senegal e lei dalla Nigeria perché omosessuali, reato punibile con sanzioni, reclusione e, nel peggiore dei casi, con la pena di morte nei rispettivi Paesi. Le loro storie ci permettono di entrare nel cuore di persone che vivono nel nostro Paese, ma con vite estremamente diverse dalle nostre, o da quelle che immaginiamo per loro. Il documentario riassegna dignità ai/alle migranti, mostrandone timori, speranze, ricordi e aspettative, spesso deluse.
Non so per cosa sto vivendo. Dov’è la mia libertà?
B. e C. non devono ‘soltanto’ sopportare la discriminazione, l’attesa e la frustrazione tipica dei richiedenti asilo in Italia, magari solo di passaggio, alla ricerca di maggiore stabilità. Perché a questo si somma la mancanza di inclusione in quanto appartenenti alla comunità LGBT+.
B. e C. raccontano la propria omosessualità, come l’hanno scoperta e che cosa questo ha significato per la loro sicurezza nella casa di origine. Si toccano poi temi come la religione, l’integrazione, la politica e la libertà, con un contrasto di prospettive su come B. e C. vedono la realtà intorno a loro e su come chi ne è al di fuori invece vede, o in alcuni casi non vede, loro.
Abbiamo avuto l’occasione di confrontarci col regista, Savino Carbone.
Com’è nata l’idea del documentario?
Libertà nasce dalla volontà di raccontare cosa accade tra il 2018 e il 2019 nella comunità migrante mentre al governo vengono approvati i decreti sicurezza dell’ex Ministro Salvini. Ho voluto trovare una prospettiva ancora più marginale rispetto a quella rappresentata solitamente ed ero interessato alla questione dei richiedenti asilo LGBT. Mi sono interfacciato con lo sportello barese di Arcigay: gestiscono una piccola attività di sportello dedicata ai migranti per fornire loro consulenza e supporto. Seguendo gli incontri per diverse settimane, ho conosciuto i due protagonisti del documentario e da lì abbiamo gettato le basi per il lavoro. Loro due sono stati gli unici ad aver accettato di raccontare in camera la loro storia.
Qual è la sfida di raccontare una doppia discriminazione, come quella che vivono i migranti appartenenti alla comunità LGBT+?
Ho incontrato difficoltà innanzitutto a far comprendere loro il senso politico del documentario: molti ragazzi africani non hanno la coscienza politica del proprio essere omosessuali. Credo ciò dipenda dal fatto che in molti Paesi africani non sia mai nato un dibattito, neanche clandestino, sui diritti civili e i diritti LGBT. Nel Senegal più rurale non ne se parla affatto, per esempio.
Poi c’è la questione della doppia emarginazione. Credo che l’espediente tramite il quale sono riuscito a renderla evidente è la solitudine. I personaggi sono quasi sempre da soli: questo nasce da una loro richiesta specifica di realizzare le riprese in posti deserti, senza correre il rischio di essere visti dalle comunità africana che ancora frequentano. I due ragazzi che ho seguito vivono nascosti dai loro amici, nessuno sa della loro omosessualità. Rimane un momento estremamente privato per loro, senza alcuna dimensione sociale.
Quali sono le complessità della loro integrazione in Italia?
Parlerei al massimo di inclusione, di percorsi di inserimento. Secondo me la parola integrazione implica qualcosa di sbagliato di fondo, qualcosa da correggere. Per loro è davvero molto difficile: possono parlare di inclusione magari in quanto migranti, ma parlare di inclusione in quanto migranti LGBT significa attivare percorsi molto più duri e dolorosi. Al sud la rete di sostegno è meno organizzata per i migranti LGBT e questo si traduce in un vero e proprio dramma nella vita dei ragazzi, che sono costretti a mettere da parte la propria identità per pensare a bisogni primari.
Questo per l’Europa, come culla del diritto, è una grave sconfitta: il fatto che questi ragazzi debbano pensare esclusivamente a sopravvivere e rinnegare la propria identità (qualcuno parlerebbe di identità sessuale, ma si tratta anche di identità relazionale e sociale). Qualche ragazzo mi ha detto che una volta ottenuto il permesso di soggiorno avrebbe preferito mettere da parte la propria omosessualità e inserirsi “con una vita normale”.
Questo è un dramma: essere in uno Stato che garantisce questo tipo di libertà, ma non poterle esercitare. L’Italia è un paese libero ma non per me, dice uno dei protagonisti. Questo tipo di libertà si conquista attraverso il lavoro, d’altro canto per avere un lavoro servono documenti legati a un percorso giuridico connesso ai fatti avvenuti in Africa. È un cane che si morde la coda e costringe questi ragazzi a un limbo perenne che impone loro delle scelte, tra lavoro e identità, tra il sopravvivere e il vivere sociale.
Che valenza politica ha per te il documentario?
Credo molto nell’azione politica del documentario. Lo ritenevo necessario anche perché il tema è davvero poco affrontato a livello documentarisco, soprattutto in Italia dove non c’è praticamente nulla. Le riflessioni in materia sono ferme da circa quarant’anni, alle tesi di Angela Davis e dei vari collettivi afroamericani. In questo caso si aggiunge la questione dei corpi migranti: non parliamo solo di gente di colore, ma gente di colore omosessuale e costretta a migrare. Il discorso sull’intersezionalità è fondamentale e deve proseguire.
Sicuramente, Libertà ha dei limiti: racconta di uno spaccato molto contingente in Italia e in un momento storico particolare. E racconta le vite di due ragazzi. Non è assolutamente un lavoro definitivo, ma spero possa rappresentare un input per l’apertura del dibattito in Italia. Ci sono indubbiamente più complessità nel momento in cui si intersecano più discriminazioni: pensiamo alle persone transgender. Io non ne ho incontrate ma sicuramente ci sono, e sicuramente è tutt’altro che facile (se non impossibile) iniziare un percorso di transizione in tali condizioni.
Cose ti spinge a rappresentare le comunità marginalizzate nei tuoi filmati?
È il modo più naturale, per me, per avviare determinati percorsi di socialità. Io sono abbastanza solitario, ma raccontare determinate storie mi aiuta a superare specifici blocchi e una naturale tendenza alla solitudine. Questo è un motivo abbastanza egoista. Poi c’è chiaramente una parte più politica: io ho una formazione di sinistra, pur essendo lontano dal mondo partitico. La mia forma di azione politica cerco di farla riemergere tramite questo tipo di lavoro.
Quali sono le sfide che incontri nel farlo?
Nella parte più difficile si nascondono le più grandi gratificazioni. Ci sono difficoltà dovute al provare a convincere le persone a raccontarsi, ma si innescano meccanismi di umanità. Solitamente attivo percorsi paralleli in cui seguo anche i ragazzi e questo per me è estremamente stimolante. La naturale tendenza delle persone è quella di raccontare storie e queste sono le storie che mi sento di raccontare.
Cos’ha rappresentato per te girare questo documentario nella tua città?
Quando si pensa al cinema documentario o al fotogiornalismo si pensa sempre ai mondi esotici, ma io sono convinto che le storie più interessanti siano legate al proprio territorio. Non bisogna mai andare troppo lontano per trovare qualcosa che merita di essere raccontato. Girare a Bari ha significato per me muovermi con meno difficoltà, trovare location sicure con facilità e comprendere meglio la situazione che vivono i ragazzi. Girare in luogo caro sicuramente significa cogliere molte più sfumature di un determinato racconto.
Credi che vedere una storia diversa girata in un luogo familiare possa aiutare gli italiani a empatizzare con i richiedenti asilo?
Certamente. Credo possa aiutarli anche a comprendere la complessità dei propri vissuti. Bari venera un Santo di colore e trovo ci sia più apertura rispetto ad altre città del nord, ma questo vale anche per altre città del sud. Però c’è un appiattimento della narrazione. Abbiamo questo immaginario collettivo del migrante che scappa dalla guerra, ma in realtà c’è anche altro. A volte ci sono ragazzi che scappano perché in molti paesi dell’Africa subsahariana l’omosessualità è un reato. Risulta più difficile però comprendere dinamiche maggiormente articolate che possono essere alla base del viaggio. È importante ampliare il parco narrativo di storie a cui la popolazione può accedere per favorire l’incontro con l’altro.
Quando sarà disponibile per il pubblico Libertà?
Al momento non lo sappiamo con certezza, ma probabilmente sarà fruibile online entro la fine dell’anno. Avevamo pensato di renderlo disponibile per qualche giorno vista la situazione, ma non abbiamo ancora avuto la prima in Italia e questo pregiudicherebbe la partecipazione a festival italiani a cui teniamo molto. Speriamo in una collaborazione anche coi festival italiani, oltre che nel mondo dell’associazionismo. Io ho promesso ai ragazzi di Arcigay che mi hanno sostenuto di mostrare il documentario come strumento anche per aiutare ragazzi che si trovano nella situazione dei protagonisti. Sarebbe bello inoltre confrontarsi con altre realtà che possono dare il loro contributo, quello che raccontiamo noi è solo uno spaccato parziale del fenomeno.