Solitamente sono quella persona alla quale vengono chiesti consigli di lettura. E come dare torto ad amicə, colleghə e conoscenti? Ce l’ho persino tatuato, un libro. Sono poi riuscita a fare una tesi di laurea avente come oggetto la letteratura (il punto è che ho studiato Giurisprudenza; non so se si percepisce la disperazione del mio relatore, ancora oggi dopo diversi anni) e posseggo innumerevoli volumi, tanto che Ikea dovrebbe farmi un monumento alla dedizione. Hai bisogno di un suggerimento su gialli nordici o sulle saghe familiari? Eccomi qui. Sei unə fan del fantasy? Non c’è problema, posso consigliarti anche in quel campo. Ultimamente sei in fissa anche tu con Stephen King? Vieni qui, compagnә!
L’essere una incallita lettrice non mi ha mai permesso di apprezzare le serie tv fino in fondo. So che nove persone su dieci passano le loro serate incollate sulle piattaforme di streaming con abbonamento, a ingurgitare una puntata dietro l’altra: ecco, ammiro molto la loro capacità di sapersi adeguare al mondo esterno. Il mio problema è sempre stato che mi stufo facilmente, dopo un paio di episodi provo una noia indicibile e finisco sempre col gettare la spugna. Qualche eccezione c’è stata, ovviamente, ma si contano sulle dita di una mano. Questi sono i motivi per i quali, in effetti, non sono proprio la persona più adatta a dare consigli sulle serie tv.
Ecco perché, a dire il vero, non vorrei dare consigli proprio a nessunə, ma semplicemente parlare di una serie tv (l’unica degli ultimi mesi) che ho visto e che, nel bene o nel male (più nel male) mi ha colpita. Perché ho scelto di guardare proprio questa, nel mare magnum di serie tv che le centinaia di piattaforme offrono? Perché dovrebbe raccontare la storia di Lidia Poët. Tutti dovremmo conoscere la sua biografia e, da neo-avvocata, è quasi un obbligo. Lidia Poët fu la prima donna ad entrare, nel 1919, nell’Ordine degli Avvocati in Italia: la professione fino a quel momento era riservata soltanto al mondo maschile. Già questo è un dato che, sebbene conosciuto ai più, non deve essere tralasciato come se, tutto sommato, ormai fosse notizia conosciuta.
Dopo la laurea con il massimo dei voti nel 1881 alla Facoltà di Legge a Torino, con una tesi sulla condizione femminile e il diritto di voto, Lidia Poët svolse per due anni la pratica forense, un passaggio indispensabile per sottoporsi agli esami da procuratore legale e, dopo aver superato con successo anche quest’ultimo step formativo, chiese formalmente l’iscrizione all’Albo degli Avvocati e dei Procuratori Legali. Nel 1883 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino votò con otto voti a favore e quattro contrari la risoluzione ad iscrivere la dottoressa Lidia Poët, la prima donna in Italia, all’albo degli avvocati patrocinanti. È opportuno sottolineare che la legge professionale dell’epoca non impediva, né proibiva, l’esercizio della professione forense ad una donna, eppure non tardarono a diffondersi alcuni articoli o testi, di natura polemica e prettamente sessista, contro la presenza di una donna nell’albo professionale. La Corte d’Appello di Torino, probabilmente mossa dall’opinione popolare, propose di annullare l’iscrizione all’Albo degli Avvocati della dottoressa Poët, adducendo come unica motivazione plausibile quella secondo la quale la professione forense dovesse essere qualificata come un ufficio pubblico e dunque, in quanto tale, vietato alle donne.
Quanto si afferma lo si può leggere proprio nell’estratto della pronuncia della Corte d’Appello di Torino. Nonostante l’opinione pubblica fosse divisa tra sostenitori e detrattori, la Corte di Cassazione confermò la pronuncia della Corte d’Appello impedendo, di fatto, il libero accesso alla professione da parte dell’avvocata Poët. Le tesi di coloro che si opposero all’esercizio della professione femminile furono sostanzialmente due: innanzitutto, le donne avevano il ciclo mestruale. Impossibile pensare che, durante quei giorni, queste potessero esercitare la professione con giudizio e serenità. La seconda ragione, connessa alla condizione giuridica della donna ai tempi, non le permetteva di godere della parità di diritti rispetto agli uomini (si pensi al fatto che le donne non potevano ricoprire il ruolo di testimoni nei procedimenti giudiziari).
La vicenda dell’avvocata Poët fece smuovere qualcosa: i movimenti femministi dell’epoca insorsero, ma non solo. Anche un noto professionista torinese dei tempi (l’avvocato Santoni De Sio) e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia si prodigarono, tra gli altri, per difendere il diritto negato all’avvocata.
Sebbene la Corte di Cassazione le impedì formalmente di patrocinare, l’amore per la legge spinse comunque la dottoressa Lidia Poët a continuare ad interessarsi alla professione, proseguendo l’attività, seppur in maniera informale, all’interno dello studio legale del fratello. Dal 1883, data di cancellazione dall’Albo professionale, fino al 1919, anno di approvazione della Legge Sacchi (che autorizzava ufficialmente le donne ad entrare a far parte dei pubblici uffici, eccezion fatta per la magistratura, la politica e i settori militari), all’avvocata Lidia Poët non fu consentita la possibilità di recarsi in Tribunale. Nel 1920, all’età di 65 anni, Lidia Poët poté finalmente presentare una nuova domanda di iscrizione all’Ordine degli Avvocati che, in questo caso, fu accolta favorevolmente; la prima avvocata italiana divenne anche la presidente del Comitato italiano pro-voto alle donne.
Non avrei potuto non guardare la serie dedicata all’avvocata, dal titolo La Legge di Lidia Poët e interpretata da Matilda De Angelis. Come anticipato, non sono un’esperta di serie tv, ma ci avevo creduto. Avevo pensato potesse essere ‘la serie’, quella che mi avrebbe fatto cambiare idea, che mi avrebbe fatto divorare gli episodi e – finalmente – apprezzare un prodotto del piccolo schermo. Niente di più sbagliato; e la delusione è stata doppia, considerata la mia dedizione (anche professionale) alla figura di Poët e il fatto che questa è, in teoria, la prima grande serie italiana prodotta da Netflix.
I problemi sono due: il racconto della figura storica non è stato messo in cima alla lista delle priorità. Essendo io una persona tendenzialmente noiosa, mi sarei accontentata di una serie tv che ripercorresse quanto più fedelmente le vicende della avvocata. Non un legal drama, peraltro neanche particolarmente arguto. La scrittura del personaggio di Lidia è povera e stereotipata (tutto ciò di cui non ho bisogno quando mi approccio a una storia), limitata purtroppo ai suoi love affairs. Ma non stiamo parlando di una figura importantissima, della prima avvocata italiana? Il secondo problema, infatti, sono proprio i sei casi investigativi che l’avvocata (che, a questo punto, più che una giurista pare sia stata dipinta come un Detective Conan dell’Ottocento) affronta. Prevedibili nella trama ed evidenti nella soluzione, non mi hanno presa neanche un po’.
Se con le serie tv sono, evidentemente, molto sfortunata, non mi resta che ricordare la tesi di laurea discussa il 17 giugno 1881 dalla stessa Lidia, dedicata alla Condizione della donna rispetto al diritto costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni; l’elaborato contiene interessanti e attuali considerazioni, che valgono la pena di essere ricordate. Tra le altre:
“Non è sotto l’aspetto di antagonismo che vorrei vedere l’uomo e la donna vicini nella vita sociale, anzi come completamento l’uno dell’altra. Credo che unendosi le qualità degli uni a quelle delle altre, contemperandosi le esagerazioni e le imperfezioni reciproche, si giungerebbe a quella armonia migliore desiderabile tanto nello Stato, che è pure la grande riunione delle famiglie, quanto nella famiglia stessa”.
1 “La questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria […] ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine […]. Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa […]”.
Poët Lidia, Dissertazione per la laurea in Giurisprudenza, Università di Torino, 17 giugno 1881 dal titolo: Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni.
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Foto di Tim Mossholder: https://www.pexels.com/it-it/foto/blu-scuro-dipingendo-astratto-7166030/
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