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Ma cosa aspettate a vedere Jessica Jones?
Dark Light

Ma cosa aspettate a vedere Jessica Jones?

Ad essere ottimisti, nella vita, c’è solo da guadagnarci.
Dev’essere stata ottimista ad esempio Rosa Parks, quando 60 anni fa negò il proprio posto sull’autobus a un bianco, perché confidava in cuor suo che la segregazione razziale verso gli afroamericani sarebbe di lì a poco cessata. Così come ottimista fu l’attivista gallese Siân James, quando scelse di supportare le istanze dell’LGSM che culminarono nel Pride londinese del 1985. E un po’ devo esserlo stato anch’io nella mia piccola e risibile dimensione nerd, quando, ancora traumatizzato dalla visione dell’episodio pilota di Supergirl, esternavo stoicamente la mia fiducia nell’imminente serie su Jessica Jones. Nello specifico, si trattava dell’auspicio che prima o poi anche le donne con superpoteri sarebbero riuscite a godere di un degno adattamento in live action.
Qualora siate ancora all’oscuro del problema che attanaglia le supereroine di celluloide, vi snocciolo questa esemplificativa lista di prodotti audiovisivi tristemente reali: Supergirl (1984), Barb Wire (1996), Witchblade (2000), Catwoman (2004), Elektra (2005).

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Oggi parliamo di Street Credibility

Un’ecatombe artistica. Flop inesorabili di critica e di pubblico che hanno generato la certezza comune che il genere supereroistico fosse esclusivo appannaggio di maschi etero (si veda a supporto della tesi il Constantine “straight” e annacquato del 2005) e di razza caucasica, quando i fumetti già da tempo si erano portati avanti: per rimanere in ambito Marvel, basti citare il mutante Northstar – primo supereroe omosessuale della Casa delle Idee creato nel ‘79 – o i vari Black Panther e Luke Cage, che strizzavano l’occhio all’allora nascente movimento delle Pantere Nere.
Tornando alla sequela di flop già citati, la tesi più in voga per giustificare tali disfatte è spesso stata riassunta in una frase: “alle femmine non interessano i supereroi”. Bene, la visione di “Jessica Jones” sbugiarda completamente questo assunto per riscrivere un concetto molto più semplice: alle femmine non interessano i supereroi alla gente interessano le belle storie.

Il contesto: nella primavera del 2015 Netflix rilascia la prima stagione di “Daredevil”, 13 episodi con cui il cosiddetto Marvel Cinematic Universe tenta di alzare l’asticella qualitativa dei propri prodotti televisivi dopo i precedenti di “Agents of Shield” e il da noi già recensito “Agent Carter”. A novembre di quest’anno Netflix ci riprova tornando nel mondo (o meglio, quartiere) della fortunata “Daredevil” e dedicando un’intera serie a Jessica Jones, forzuta eroina di Hell’s Kitchen dalla genesi piuttosto recente – e con “recente” intendo creata dopo il 2000, data oltre la quale gli anziani come il sottoscritto hanno smesso di leggere di personaggi in calzamaglia in virtù di una non precisata e comunque mai conseguita “maturità”.
“Jessica Jones” è un prodotto di matrice intimamente supereroistica ma che, come il fumetto, viene contaminato con il noir (non è un caso che il creatore del personaggio sia uno specialista del genere, quel califfo di Brian Michael Bendis di cui ho avuto modo di leggere le migliori storie di Spawn) e con altre suggestioni provenienti dalle serie più seguite del momento.

Innanzitutto mi preme specificare che, poiché l’obiettivo di questo articolo sarebbe quello di invogliarvi a vedere la serie, cercherò da qui in avanti di argomentare risparmiandovi qualsiasi tipo di spoiler.

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La storia segue le vicende di Jessica Jones, ruvida detective della Alias Investigations. Sappiamo subito che la donna ha dei superpoteri che le consentono una forza sovrumana e di fare dei grossi balzi al limite del volo (fun fact: un po’ come il primissimo Superman di Siegel e Shuster), ma anche che per oscure ragioni si è rifiutata di attenersi al protocollo non scritto che vuole che da grandi poteri derivino grandi responsabilità: Jessica pertanto non ha scelto, come molti suoi “colleghi”, di usarli per aiutare il prossimo. La già turbolenta quotidianità del personaggio viene però sconvolta dall’arrivo in città (una New York rappresentata onestamente per quello sporco porto di mare che in realtà è) di una sua vecchia nemesi chiamata Kilgrave. Di Kilgrave sappiamo subito tre cose: non ha buone intenzioni; ha il potere di far fare alle persone ciò che vuole; ha già esercitato questo potere in passato su Jessica, causandole una serie di traumi da cui, al momento dell’avvio della narrazione, la protagonista sta cercando senza successo di riprendersi.
Fatte queste premesse, la serie si dipana con una modalità narrativa estremamente lineare che rinuncia quasi del tutto alle classiche “sottotrame” e che la rende più simile ad un lungo film che descrive l’evoluzione del malato rapporto che lega Jessica e il suo aguzzino.

Apro qui una brevissima parentesi su Kilgrave, anche se meriterebbe un articolo a sé per diverse ragioni che mi farebbero andare off topic: è interpretato da un enorme David Tennant; è a mio avviso col Wilson Fisk di D’Onofrio il miglior cattivo del Marvel Cinematic Universe; ho scoperto di avere in casa il fumetto con la sua prima apparizione, un vecchio “Daredevil” del ‘64, solo dopo aver finito il binge watching (mi rendo conto che questa informazione è meno fondamentale, ma ci tenevo a dirvela).

Marvel's Jessica Jones
Non sembra, ma è cattivissimo

Ma tornando alla serie, eccovi le tre ragioni per le quali a mio avviso “Jessica Jones” è un prodotto che prende gli stereotipi e li sgretola con la superforza:

1. Costruisce una sincera empatia verso la protagonista

Per evidenziare il primo punto interessante prendo in prestito una riflessione del critico Aldo Fresia nel bel podcast cinematografico “Ricciotto”: quello che ci viene raccontato è, in una sintesi davvero estrema, una storia di stalking. Ora, voglio ben sperare che tutti quelli che abbiano una coscienza considerino lo stalking una cosa riprovevole, ma è chiaro che non tutti quelli che non l’hanno vissuta siano in grado di provare realmente il profondo malessere che essere vittima di queste situazioni può comportare (io ad esempio, da maschio gamma medio, mi butto in questo calderone). Ecco, la serie è in questo caso estremamente efficace nel far empatizzare con le vittime del criminale – in primo luogo con la protagonista – e lo fa senza ricorrere a quegli inflazionati espedienti che autori meno abili in genere usano quando affrontano tematiche di questo tipo, come:
modalità ricattatorie o compassionevoli (si veda qualsiasi “film serio venuto male”);
immagini crude fini a se stesse ed autocompiaciute (si veda il filone “rape and revenge”);
approccio paternalistico/pedagogico (si veda alla voce “Rai – Radiotelevisione Italiana”).
Lo fa, invece, raccontando davvero bene la storia e facendoti letteralmente provare il disagio di una protagonista che non fa mai nulla per risultarti simpatica, ma per la quale finisci comunque irrimediabilmente per parteggiare perché quello che ha vissuto e che sta vivendo è profondamente ingiusto e disturbante.

2. Non banalizza i personaggi femminili

La serie è chiaramente a trazione femminile, a partire dalla showrunner Melissa Rosenberg (già sceneggiatrice di Dexter), passando per la sua protagonista, fino agli importanti comprimari come l’amica d’infanzia Trish Walker o la spregiudicata avvocatessa Jeri Hogarth (che nei fumetti è invece un personaggio maschile). Lo è, ma non lo dichiara, non si compiace di esserlo e non vuole assolutamente diventare uno di quei prodotti didascalici che parlano di donne alle donne. Gli autori lasciano che a delineare la psicologia dei personaggi e a determinare ciò che sono sia ciò che fanno, restituendo in questo modo allo spettatore un panorama assolutamente variegato di personalità la cui appartenenza o meno ad un genere o il cui orientamento sessuale non sono davvero rilevanti ai fini del prosieguo del racconto. Ad esempio (ribadisco: NO SPOILER), il fatto che la Hogarth sia lesbica non è un elemento funzionale allo sviluppo della storia o alle definizione del personaggio, lo è piuttosto il fatto che abbia un matrimonio (in questo caso contratto con un’altra donna) e che stia cercando un modo per divorziare.
Si riscontra quindi una gestione intelligente dei personaggi che rifugge dagli stereotipi della narrazione mainstream: non c’è la “donna forte”, ma una persona che viene a patti con i propri demoni e che prova a fare a cosa giusta; non c’è l’ancestrale dicotomia “madre VS. puttana”: le protagoniste vengono proposte come donne indipendenti, senza il bisogno di mostrare un uomo accanto che definisca il loro ruolo nel mondo; le storyline romantiche, quando vengono inserite, non hanno nessun valore salvifico; infine, troviamo una rappresentazione di donne a proprio agio con la propria sfera sessuale senza essere ipersessualizzate: gli autori ci dicono che Jessica può tranquillamente andare a letto con chi vuole se ne ha voglia, senza bisogno di vestirla con tacchi a spillo e minigonna ascellare in latex rosso.

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3. Reinterpreta il conflitto fra bene e male

Chi segue il genere supereroistico sa bene come il percorso che porta la persona comune a diventare eroe o eroina abbia una sua grammatica piuttosto definita:
A) acquisisco i poteri;
B) li uso per fare del bene.
Fra il punto A e il punto B gli autori negli anni hanno costruito molteplici variazioni sul tema, con l’intento di connotare diversamente i propri personaggi: c’è chi compie il salto automaticamente (come i primi ingenui eroi della Golden Age), chi lo fa controvoglia e in maniera sofferta (con l’avvento dei cosiddetti Antieroi milleriani), ma generalmente sappiamo che non si scappa dalla necessità del punto di partenza e del punto di arrivo.
Nemmeno Jessica Jones fondamentalmente sfugge da questo assunto, benché il suo percorso – decisamente più tortuoso – appaia come una rilettura relativamente fresca ed originale della figura della supereroina, perlomeno per quanto si è visto finora sullo schermo: sappiamo che a un certo punto della sua vita ha acquisito dei poteri, ma non ci viene detto né come, né quando esattamente abbia cominciato ad usarli. Pare che in un determinato momento ci abbia provato (come suggerito dal flashback in cui viene mostrato un goffo costume azzurro e bianco che fa il verso a quello realmente indossato da Jessica nei fumetti), ma che il tentativo non sia andato a buon fine e che ci abbia quindi rinunciato.
Il fatto che con l’evolversi del racconto la Jones finisca comunque per trasformarsi in un’eroina non è quindi dettato da una decisione consapevole, quanto dall’intrinseca impossibilità morale della protagonista di fare diversamente. Ad aumentare poi la complessità del conflitto fra bene e male, non c’è mai nelle vicende raccontate un’idea univoca di bene da perseguire, bensì molteplici scelte possibili il cui risultato è tanto ignoto ai personaggi quanto allo spettatore: scegliere quindi ciò che si reputa giusto non implica necessariamente che sia stata presa la decisione migliore, pur se in buona fede.

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Per tirare le somme, il pregio maggiore che ho individuato in “Jessica Jones” consiste nella sua capacità di reinterpretare originalmente un genere molto connotato – quello “di supereroi” – e allo stesso tempo stabilire un nuovo canone qualitativo per la rappresentazione dei personaggi femminili all’interno del genere stesso.
Un adattamento che, come dicevo all’inizio, ha ripagato le mie aspettative ottimiste, incontrando anche un ottimo riscontro di pubblico e di critica.
Penso che i prodotti culturali, e in maggior misura quelli di intrattenimento, possano giocare un ruolo decisivo nel promuovere l’emancipazione sociale più di qualsiasi insegnamento “dall’alto”: questo perché consentono al grande pubblico di entrare in empatia con i personaggi, imparando a conoscerli in quanto persone frutto di un vissuto che nemmeno lo stereotipo più odioso può svilire.
Rispetto al tema della rappresentazione delle donne vanno registrati negli ultimi anni dei progressi significativi, anche se in molte grosse produzioni permane ancora un sessismo latente che un pubblico assuefatto spesso non riesce nemmeno a riconoscere. Da qui il mio caloroso invito ad esigere sempre dalle opere che fruiamo intelligenza e inclusività (fatta bene, ovviamente, e non con la provetta) e a non pensare che certe rappresentazioni discriminanti siano normali perché “si è sempre fatto così”. Perché se nessuno si fosse mai preso la briga di mettere in discussione la tradizione e aggiornarla ai progressi della società – o alla semplice verità dei fatti – oggi saremmo ancora pieni di western in cui gli Indiani sono i cattivi.

Quindi vi chiedo: ma cosa aspettate a vedere Jessica Jones?

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