Si chiamano collettivamente “maschilità” tutte quelle caratteristiche storiche e fisiologiche del maschio. Questa definizione è problematica: pretende infatti di sommare un elemento storico, che cambia col passare del tempo, e uno biologico, “genetico” che invece è stabile nel tempo. La conseguenza di una definizione di questo tipo è duplice: l’esistenza di tante mascolinità “normali”, perché ogni contesto culturale e sociale ne produce una, e il fatto che tali “normalità” regolino rigidamente ogni altra manifestazione di mascolinità, rendendole non-normali.
Ecco ottenuto il fenomeno dell’eterosessismo: la mascolinità considerata normale è etero e fatta “così”, quindi a questa corrisponde solo una femminilità complementare e tutto il resto – qualsiasi cosa si definisca in maniera diversa da queste due – è anormale, diverso, mostruoso, malato, pervertito, osceno.
Per tramandare questi due rigidi paradigmi si usa il sessismo: l’invenzione di una storia di superiorità da parte di un genere (quello maschile) verso gli altri, storia che poi diventa sistema di potere – esattamente com’è successo per il razzismo. Quel sistema di potere è il patriarcato: tradizioni culturali, linguaggi, abitudini educative, manifestazioni artistiche che servono a mantenere quel sistema, a tenere salda la gerarchia tra i generi che vede il maschio etero in cima, e qualsiasi altro genere subordinato al suo.
La fragilità di un maschile costruito in questo modo sta nel suo continuo bisogno di affermazione. Secondo David Gilmore in “La genesi del maschile. Modelli culturali di virilità”, la femminilità è tradizionalmente conseguita con l’arrivo del ciclo mestruale, mentre i maschi sono costretti da quella definizione sociale e storica a ribadire continuamente la propria maschilità. La vita dei maschi diventa quindi una sorta di prova agonistica: in ogni momento, in ogni gesto, in ogni relazione e in ogni situazione devono mostrare, esprimere, esibire i caratteri della mascolinità in modo che essa sia evidentemente presente e funzionante. I maschi appaiono così in perenne competizione, con se stessi o con altri, per qualcosa: potere, donne, denaro, traguardi – tutto diventa una scusa e una possibilità per dimostrarsi “uomini”. In questo consiste la fragilità maschile: il loro mondo è dominato dall’ansia da prestazione, dalla continua ossessiva possibilità di fallire.
I segni esteriori di questo contesto agonistico sono rappresentati dalla definizione in negativo che i maschi conferiscono a se stessi: i maschi non devono essere né sembrare effeminati nei gesti o nel linguaggio, non devono mostrarsi deboli in nessuna situazione, non devono esibire sentimenti o emozioni non assertive, non devono avere relazioni amicali con chi non è maschio, non devono fallire mai nelle prestazioni sessuali, non possono smettere, a nessuna età, di dimostrarsi maschi. “Frocio” è il primo insulto che si scambiano da bambini; “sfigato” (letteralmente, “incapace di avere una figa”) è la cosa che non devono essere mai.
Questa definizione in negativo fa dei maschi educati a questa idea di maschilità degli esseri deboli, perché costretti a dimostrare costantemente la loro forza. Il sistema di potere che mantiene questa definizione efficace è detto patriarcato, cioè la manifestazione e l’istituzionalizzazione di un dominio maschile nella vita sociale – privata e pubblica – percepito come “normale”, ovvio, scontato tanto da non essere messo in discussione da nessuno e da nessuna. Tanto che “avere le palle” diventa un complimento anche per chi maschio non è.
#MasculinitySoFragile è stato ed è anche un hashtag che ha avuto una storia molto istruttiva. Nato per proporre esempi della fragilità maschile che si cela dietro lo stereotipo del maschio alpha e dietro altre invenzioni culturali riguardo la “natura” maschile, qualcuno ne ha frainteso completamente il senso e lo ha usato per sfidare le donne a prove di forza – dimostrando appunto tutta la fragilità di un carattere maschile costruito solo sulla perenne esibizione di forza, sulla costante sfida al nulla, sul perenne agonismo in tutte le relazioni.
Le conseguenze di questa idea stereotipata e maschilista della maschilità possono essere molto serie nella vita di ciascuno. Credendo che sia molto maschile non manifestare debolezze di salute o non informarsi sul funzionamento del proprio corpo se non quando appaiono evidenti patologie, molti uomini trascurano aspetti importanti della loro stessa vita. Ad esempio, le donne sono incoraggiate a consultare periodicamente un/una ginecologo/a da quando sono adolescenti, mentre gli uomini considerano l’andrologia qualcosa di cui si ha bisogno non per mantenere la propria salute sessuale o per conoscerne il funzionamento, ma per ristabilirla in caso di malattie; salvo poi avere gruppi di maschilisti che si lamentano per la scarsa attenzione sociale verso il cancro alla prostata, rispetto a quella manifestata socialmente verso il cancro al seno. Questa scarsa attenzione verso la salute maschile non è una discriminazione ma il risultato di una maschilità pensata solo come efficienza, prestazione, vigore e non come cura di sé, attenzione al proprio corpo, conoscenza del proprio sesso.
Allo stesso modo si presenta come assurdamente fragile l’idea che gli uomini si fanno della sessualità femminile. Invece di educarsi a una cultura del consenso che permetta di condividere l’intimità dei propri desideri e la scoperta di quell’universo ignoto che è un corpo diverso, la maschilità tradizionale e stereotipata impone una conoscenza del corpo femminile come semplice strumento del proprio piacere, nell’assurda convinzione che il proprio sia anche quello dell’altra. Questa costante oggettivazione di tutto ciò che non è per definizione maschile porta alla costruzione di una “rape culture”, termine che significa non che ogni maschio è un potenziale stupratore, ma che lo stupro ha soprattutto il valore simbolico di un atto di potere. Il sesso maschile diviene un’arma per imporre la propria volontà, i propri valori e la propria visione del mondo, «un processo cosciente di intimidazione» – con le parole di Susan Brownmiller – che costruisce i rapporti sociali, tra i singoli come tra i gruppi, sulla fragile base di una continua minaccia.
Tanti femminismi hanno ampiamente dimostrato che la resistenza a quella persistente minaccia, cioè la critica e la messa in questione di quel modello maschile, genera il più delle volte una reazione negativa (dalla polemica alla violenza fisica, dall’atteggiamento passivo-aggressivo all’insulto). Reazione che si può leggere proprio come manifestazione di fragilità: non appena viene a mancare la controparte che “subisce” la maschilità, questa non sa più reggersi da sola perché scopre che la sua identità era costruita su una passività altrui.
Ned, mi piacerebbe davvero molto che le cose stessero come hai detto tu. Davvero.
L’agonismo fa schifo, tutto e sempre. Perché la nostra società non è ben regolata come lo sport – e anche lì è pieno di gente ipocrita e che ignora regole e rispetto. Le nostre società sono strutture gerarchiche che distribuiscono potere e che premiano chi rispetta le regole del potere – tutte molto poco umane e poco sportive. Il sessismo è il primo e più antico strumento di potere, ed è per questo che non esistono affatto tante machilità e tante femminilità, sono forme di vita che, fuori dall’eterosessismo, se la passano molto male e devono lottare anche solo per esistere. Il resto, sul diverso e sul mostro, sul piacere, non lo dico certo io: mi pare difficile che due secoli e mezzo di femminismi di cinque continenti non si siano accorti che il mondo è così bello come racconti tu.
ribadisco il mio pensiero e rispetto il tuo
l’agonismo non fa tutto schifo, non sempre e non è solo maschile
la salute sessuale è importante per uomini e donne comunque c’è una parte di verità nell’articolo (ma gli uomini oggi piangono tranquillamente)