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Nepantla: fuori dal margine dell’utopia femminista c’è la conquista reale
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Nepantla: fuori dal margine dell’utopia femminista c’è la conquista reale

Articolo di Elena Gazzari

Esiste in Messico Nepantla. Il suo nome è di origine indigena nahuatl e tradotto significa “la terra che sta nel mezzo”. Nell’immaginario culturale messicano Nepantla è un’idea: si tratta del “lugar de la falta de ubicación”, ovvero di un luogo caratterizzato dall’assenza di ubicazione. Il toponimo di origini precolombiane appare nelle opere di scrittori e poeti che lo descrivono come un territorio nomade, uno spazio libero e aperto, una zona liminale e astratta. In sintesi, Nepantla può essere inteso come un non-luogo, in greco οὐ-τόπος. Ovvero, un’utopia.

Nel 1972, la scrittrice messicana Rosario Castellanos sceglie usare questo termine per dare il titolo a una raccolta di poesie. Nasce così En la tierra de en medio, un territorio poetico e simbolico che ospita una riflessione femminista audace e militante. Il concetto di non-luogo viene declinato dalla Castellanos come l’utopia della resistenza e della lotta delle donne latinoamericane che si mostrano consapevoli del ruolo illegittimo dell’egemonia maschile nella società. Nepantla, dunque, è uno spazio utopico in cui poter ricercare la propria libertà, svelare le contraddizioni del sistema patriarcale liberticida e quindi scrivere un discorso nuovo in cui le protagoniste sono le voci femminili.

Oggi il Messico, così come molti dei Paesi latinoamericani, è il cuore pulsante di una lotta femminista intersezionale e transnazionale – o come viene chiamata in spagnolo transfronteriza, un aggettivo che rende chiara l’idea di un movimento che supera ogni barriera fisica e ideologica. In un Paese in cui, come dichiara l’ONU, la violenza di genere è paragonabile a una vera e propria pandemia, combattere per l’uguaglianza e le pari opportunità è un dovere morale, nonché una sfida all’omertà del patriarcato e delle istituzioni. Il femminismo in Messico assume un’importanza vitale, letteralmente. Perché essere femminista in Messico significa lottare per il diritto di vivere. Negli ultimi anni le città messicane, e molte altre latinoamericane, sono state fisicamente travolte da un’ondata di colori: le strade si riempiono dei cosiddetti pañuelos verdes (i fazzoletti di stoffa simbolo della legalizzazione dell’aborto), i monumenti si colorano di vernice viola e tra la folla svettano orgogliose le croci rosa, “sepolture” simboliche in onore alle vittime di sequestro e femminicidio.

La coscienza femminista si è diffusa capillarmente in ogni strato della società e i dibattiti animano le piazze, le aule universitarie e i caffè. Resta però un fatto: le riflessioni sull’uguaglianza intersezionale restano (quasi) sempre circoscritte a un ambiente prettamente femminile, e sappiamo bene che il discorso vale anche per la nostra colta Europa. In generale, una problematica comune riguarda l’incapacità di provare empatia per cause che non ci riguardano in prima persona.

Dunque l’ostilità, che è generata dall’indifferenza, condanna chi la soffre alla chiusura. E qui si torna a parlare dell’idea di non-luogo. Una società che si professa nemica del cambiamento esclude a priori coloro che vogliono lottare per il cambiamento stesso. In un mondo in cui sembra non esserci più spazio per la rivoluzione, la sola scelta per chi la sogna è il margine. Per questo, qualsiasi forma di controcultura spesso viene relegata ai confini del discorso dominante – e lì resta. Appare allora chiaro perché le femministe degli anni Cinquanta abbiano dovuto creare Nepantla: il luogo astratto e dalle possibilità infinite, che però non esisteva e non poteva esistere. In questa lotta le donne del secolo scorso sono state invisibili e per questo si sono rifugiate nella solitudine della propria immaginazione.

È certo che da allora le cose sono cambiate, ma resta un interrogativo: siamo cert* di aver valicato i confini di Nepantla, ovvero la terra dell’utopia, il solo luogo possibile in cui poter creare un mondo diverso? “Deve esserci un altro modo di essere umano e libero, un altro modo di essere!” scriveva Rosario Castellanos. Ma questo modus vivendi così nuovo e sfacciatamente libero può concretizzarsi solamente nell’immaginario di una scrittrice di Città del Messico? Solo nei circoli letterari delle studentesse con la maglietta di Frida Kahlo? Perché le riflessioni sulla violenza di genere sembrano sempre rimanere circoscritte a un pubblico di sole vittime?

La risposta a queste domande sembra arrivare proprio dal Messico, e più nello specifico dalla città di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas. Gli abitanti di questo luogo discendono per la maggior parte da etnie di origine maya e conservano intatte le loro tradizioni millenarie. Anche in questa realtà multietnica si fanno sentire le voci femminili indigene che nel 1993 hanno annunciato la nascita del FOMMA, la Fortaleza de la Mujer Maya. FOMMA è una casa di rifugio per coloro che trovano il coraggio di fuggire da contesti violenti e discriminatori e soprattutto è un collettivo di sole donne che utilizza il teatro come strumento di educazione, denuncia e cambiamento sociale. La loro è un’arte provocatoria, politica e militante, che propone di sanare le fratture nate in seno a una società estremamente complessa.

In questa sede le donne maya sentono l’urgenza di denunciare la tragicità di molti aspetti del Chiapas, quali la violenza domestica e sessuale, le dipendenze dall’alcol, i problemi legati alla migrazione e alla povertà. Con il teatro vogliono interpretare le maggiori preoccupazioni che affliggono la comunità e decostruire così un sistema politico che promuove stereotipi di classe, etnia e genere. Le attrici, artiste e attiviste della Fortaleza cercano di rendere collettiva la testimonianza autobiografica delle vittime, così da elevare l’esperienza individuale a universale e poi portarla su un palcoscenico.

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C’è una ragione per cui è stato scelto proprio il teatro come mezzo di espressione: la presenza di un pubblico. Le fondatrici del teatro maya utilizzano le proprie esperienze in quanto donne indigene vittime di violenza domestica e sociale per denunciare pubblicamente la triste realtà che le condanna. Portare in scena il dolore personale significa uscire dallo spazio privato (che spesso è quello dell’esilio tra le mura domestiche) e inserirsi nello spazio pubblico, di fronte agli uomini. Ciò che sorprende è che le storie portate sul palcoscenico non si limitano a denunciare, ma sono scritte per la comunità, perché il dolore è quello di tutti. La loro arte è messa al servizio della città e si dichiara solidale con tutte le donne e tutti gli uomini e questo la rende un forte gesto politico. Il tentativo è quello di mettere gli spettatori di fronte alla verità e di lasciare che essi si identifichino: chi con le vittime, chi con i carnefici.

Questo perché nella lotta per restaurare la libertà dell’umanità intera c’è bisogno dello sforzo di tutti gli esseri umani: degli oppressi, ma anche (e forse soprattutto) degli oppressori. Le storie di FOMMA parlano di grandi cambiamenti e costringono chi le guarda a pensare a nuove soluzioni. È dovere delle attrici, infatti, interagire con il pubblico, interrogarlo, incoraggiarlo al dialogo e sfidarlo a prendere nuove posizioni. Dunque, per questo genere di femminismo intersezionale “abbattere la quarta parete” implica anche abbattere le dinamiche di oppressione che trasfigurano l’idea di uguaglianza e giustizia nella terra latinoamericana.

Ciò che è meraviglioso è che in uno spazio teatrale sospeso tra finzione e realtà si è forse concretizzata Nepantla. Ma nel momento in cui si concretizza un’utopia, questa non diventa forse realtà?

Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di: Kinga Cichewiczdavid carballar su Unsplash; di Wotancito e FOMMA

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