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Non basta che sia una donna
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Non basta che sia una donna

A pochi giorni dall’inizio delle votazioni per la Presidenza della Repubblica italiana, il “toto nomi” continua a essere particolarmente acceso, tra strategie politiche, accordi, scenari sperati e candidature più o meno plausibili. All’interno di questo dibattito, se n’è innescato un altro, concentrato tutto sulla possibilità di eleggere “una donna” come Presidente della Repubblica. Forse però è il caso di contestualizzare questo pensiero comune, provando a comprenderne la portata politica e sociale e interrogarci sulle sue radici, sul significato, sulle possibili conseguenze.

Perché proprio una donna?

L’elezione di una Presidente vuole sicuramente essere la risposta più immediata all’annoso problema della sottorappresentazione femminile che, anche in ambito politico, non lascia spazio a interpretazioni. Se infatti a essere eletta fosse davvero una donna, questa sarebbe certamente la prima donna presidente della storia della Repubblica Italiana. Indubbiamente ciò costituirebbe una grande novità rispetto al passato nonché un momento di svolta rispetto alla filogenesi, finora tutta al maschile, della suddetta carica istituzionale. Qual è allora il problema di questo approccio?

I limiti del concetto del “finalmente una donna”

Dobbiamo innanzitutto ricordarci che se ne stiamo parlando è perché nel 2022 la presenza di una donna nelle posizioni al vertice, in questo caso politico-istituzionale, rappresenta ancora un momento rivoluzionario, l’eccezione alla regola, l’evento che rompe la normalità dell’ordine costituito. Non proprio un successone insomma, dobbiamo ammetterlo. Eppure il vero nodo problematico dell’espressione non risiede tanto nel triste “finalmente”, per quanto non sia per nulla confortante, quanto nel ben peggiore “una donna”.

“È ora di un Presidente donna”

Questa è la frase che più di frequente abbiamo ascoltato negli ultimi giorni. E da chi è solitamente pronunciata? Da uomini che già detengono il potere e che, proprio in virtù di quel privilegio che da esso ne deriva, hanno la facoltà di legittimarne un’eventuale cessione o passaggio di mano. Al centro del discorso ci sono ancora loro, gli esponenti maschili, gli uomini della politica, coloro a cui non è mai stato detto che fosse arrivato il momento di un presidente uomo, coloro che lo sono diventati o hanno provato a esserlo e basta, senza chiedere, senza che gli altri glielo permettessero per gentile concessione. Che ruolo hanno le donne in questa narrazione? Di certo non da protagoniste. Sono descritte come personaggi secondari, quasi accessori, menzionate en passant, e comunque solo per il loro essere riconosciute come parte di una data categoria. Che categoria? Quella identificata come blocco unico, “le donne”, da chi invece può concedersi il lusso di avere anche una determinata appartenenza politica, una specifica convinzione ideologica, un preciso ruolo sociale. Insomma, da chi ha la fortuna di non essere identificato come una figura piatta, completamente schiacciata sul suo genere, al punto da non possedere, allo sguardo altrui, praticamente nessuna altra caratteristica, competenza, capacità di cui disquisire.

Basti pensare che nell’affrontare il discorso della possibile elezione di una presidente ci imbattiamo con una facilità disarmante in licenze poetiche che solitamente partono con “una donna presidente” per culminare in “un presidente donna”. Nel primo caso il vero soggetto che cattura tutta l’attenzione è la donna, mica la Presidente; nel secondo si sente addirittura l’esigenza di specificare il genere della carica e non, come accade sempre con quello maschile, tramite la corretta concordanza di articolo e nome a cui si riferisce (come peraltro la grammatica richiederebbe), ma in maniera sfacciata, aggiungendo “donna” a un’espressione fino a quel momento declinata al maschile, giusto per sottolineare ancora una volta l’eccezionalità del caso al punto tale che non si compie nemmeno lo sforzo di aggiornare il proprio vocabolario.

Insomma, non parliamo di questa o di quella figura politica, istituzionale, pubblica. No, qui ci riferiamo a un membro qualunque della coalizione indivisibile e soprattutto apparentemente indistinguibile delle donne, da cui ogni tanto esce fuori la prima donna in qualcosa, altre volte soltanto “una donna a caso”.

Ma “una donna” chi?

Siamo consapevoli del fatto che le donne costituiscono praticamente la metà della popolazione e che, forse, parlare di “una donna” non è sufficientemente indicativo quando si tratta di delineare il profilo della massima carica dello Stato? Perché con gli uomini è normale parlare di contenuti, di sostanza, addirittura di sfumature, semplicemente di nomi e persone specifiche con tutto ciò che questo comporta, e quando si tratta di donne invece liquidiamo sempre la questione a “una donna a caso” con l’unico intento di rappresentarle tutte? Com’è possibile pensare che la questione della rappresentazione e partecipazione femminile possa ancora essere posta in questi termini?

L’esclusione delle donne dalle posizioni di potere non si risolve concedendo, una volta ogni tanto, del potere a una sola fortunata, scelta in maniera randomica tra quelle poche che in quell’occasione vengono in mente al solito gruppo di uomini (e solitamente solo per ulteriori strategie politiche). Non è con la casualità, la contingenza fortuita o la fortuna prestabilita da accordi fatti da uomini che si normalizzano il successo e la realizzazione femminile. Non è così che si raggiunge la parità.

Al contrario, in questo modo non si fa altro che continuare a minare la credibilità e la professionalità di quante quel posto lo meritano per le loro carriere luminose, per i curricula infiniti e le idee brillanti: le stesse carriere, gli stessi curricula e le stesse idee di cui si parlerebbe, se solo non fossero inquadrate come esclusivamente donne. Se solo fossero uomini.

No, non basta che sia una donna

Non ci basta una donna qualunque, purché sia la prima donna a fare qualcosa che gli uomini fanno da secoli. Che almeno si faccia lo sforzo di impararne i nomi, di studiarne i percorsi, di saperne illustrare i traguardi, le ambizioni, le posizioni politiche, le idee. Proporre “una donna a caso”, magari anche inadatta al ruolo, significa dare per scontato che non si possa chiedere di più, che è stata presa e persa un’occasione. Scegliere una “donna a caso” costituisce un danno irrimediabile a svantaggio di tutte quelle che invece potrebbero, a pieno titolo, ricoprire la carica, privandole così della possibilità di un legittimo avanzamento di carriera. Oltre a disconoscere i loro meriti, infatti, si finisce proprio con il negarne l’esistenza: ci si dimentica del fatto che, lungi dall’essere donne a caso, ci sono professioniste la cui figura sarebbe perfetta per quel ruolo. E queste esperte di settore non solo esistono, ma sarebbero anche interessate a guidarli quei settori.

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Forse è il caso di ricordare che, come per gli uomini, nemmeno per le donne il genere rappresenta una qualifica professionale o un titolo. Ecco perché non è sufficiente che sia donna, perché non basta che sia una donna.

Una donna tra gli uomini

In ballo non c’è soltanto il superamento ideologico-concettuale del doppio standard per cui ciò che vale per una categoria (basta che sia donna) non vale per l’altra (non basta che sia uomo!). Qui si sta giocando una partita molto più grande, che potrebbe essere vinta se giocata bene, che potrebbe dare vita a nuovi percorsi e nuove possibilità. Non basta che sia donna se non ha nemmeno un nome. Non basta allora che sia una donna se, dopo essere stata nominata dagli uomini (magari esclusivamente per una questione di convenienza o di credibilità di partito), deve anche essere soggetta a logiche che la vedono nuovamente subordinata. Non basta che sia donna se deve essere mossa, presa, spostata come fosse una pedina in un gioco di cui non può dettare lei stessa le regole. Se a quel gioco non ha nemmeno scelto lei stessa spontaneamente di prendere parte.

Non basta che sia donna se, una volta al potere, deve continuare ad essere l’unica donna in una folla di uomini, l’eletta, la prescelta, colei che è completamente diversa da tutte le altre da cui, curioso!, all’inizio invece nemmeno si distingueva.

Non basta che sia una donna se da quel potere non possono trarre beneficio alcuno le altre donne, peggio ancora se ne dovessero risultare lese. Se quella donna al potere si muove, ragiona e agisce come i suoi predecessori. Se le sue idee continuano a rappresentare conservatorismo e bigottismo. Se il suo essere rivoluzione coincide solo col suo genere, ma non con la portata del suo genere al potere. Se non lavora per fare spazio alle altre.

Non basta che sia donna se deve essere solo “una donna”.

Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di Quirinale, Palazzo Chigi, Presidenza della Repubblica – Quirinale.it.

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