Articolo di Giulia Barelli
Non si può più dire niente. L’allarme, lanciato da alcune voci influenti del panorama mediatico italiano, getta un’ombra terribile sul futuro democratico: quella di una libertà di parola che si assottiglia sempre più, imbavagliata a forza da minoranze e gruppi discriminati, tra cui donne, minoranze etniche, islamicə, comunità LGBTQIA+ … Oppure no.
Il presunto pericolo di mutismo coatto imperversa da tempo, tanto che chi lo denuncia parla di una vera e propria cultura: la cancel culture. Un sistema di pensiero – e azione – che, armato dei social, pretende la cancellazione di chi assume una posizione considerata sbagliata. Una spada di Damocle pronta a cadere sulle figure del mondo dell’informazione, dello spettacolo e della politica non appena pronuncino verbo senza attenersi alle regole del politicamente corretto su questi gruppi fin troppo suscettibili. Pena: l’ostracismo lavorativo e sociale. Una minaccia che finisce per essere liberticida: chi rischierà più di esprimersi, di parlare, di prendersi la libertà di sbagliare, se si trova sotto costante ricatto? Non si può più dire niente. Oppure no.
La famigerata cancel culture inizia a conquistare le cronache qualche anno fa quando, sulla spinta di alcuni movimenti particolarmente virali, come #metoo e #blacklivesmatter, alcuni personaggi pubblici vengono colpiti dalla scure della censura. Soprattutto negli Stati Uniti, alcuni giornalisti, registi, comici, politici (quasi sempre uomini bianchi), si sono dimessi o sono stati licenziati in seguito a reazioni dure sui social per una frase, un gesto, un comportamento o un’accusa giudiziaria. Non solo, a volte si è ripesca perfino dal passato un dettaglio particolarmente infelice (una foto con blackface) che oggi risulta intollerabile e che quindi non merita perdono. Basta googlare per trovare facilmente le liste di proscrizione. Non si può più dire niente. Oppure no.
Se fotografi un conflitto dalla prospettiva di una parte, la persona che guarderà l’immagine penserà che chi sta attaccando sia nel torto. È utile allora porsi allora qualche domanda cambiando inquadratura, in modo che si allarghi lo sguardo.
Non si può più dire niente? L’allarme lanciato dalle principali voci dell’informazione italiana avverte di una presunta minaccia agita da gruppi discriminati che, con le loro pretese, rischierebbero di ridurre al minimo la libertà di parola di chi, invece, vorrebbe «permettersi di sbagliare o di esprimersi in modo politicamente scorretto». E invece pare che non si possa più dire niente, poiché basta una battuta sessista perché la gogna dei social chieda la testa dell’impavido malcapitato, che rischia posto di lavoro e contatti professionali e sociali. Il pericolo è avvertito seriamente. Tanto che il direttore di un noto telegiornale, considerato dal suo cospicuo seguito social persona professionalmente autorevole, ha paragonato non troppo tempo fa la cancel culture ai roghi del nazismo, perché il fronte del politicamente corretto procede dittatorialmente a colpi di spugna e chiunque non si adegui ai canoni imposti subisce, appunto, la cancellazione. Oppure no.
Questa prospettiva è a dir poco disonesta: mette a fuoco solo alcuni punti e ne tralascia volontariamente altri restituendo una fotografia molto distorta. Rifocalizziamo. Se si guarda bene si noterà subito che da un lato si trovano vari esponenti della cultura dominante, una cultura patriarcale, bianca, eteronormativa, conservatrice. Sono coloro che parlano dai principali pulpiti dell’informazione e dell’industria culturale, che hanno spazi nei canali televisivi nazionali e sui maggiori quotidiani. Gli ostracizzati, a detta loro.
Dall’altro lato ci sono movimenti e comunità, spesso non propriamente organizzati, che riescono ad assumere la forza della moltitudine grazie alle dinamiche dei social, ritrovandosi in determinate parole d’ordine. Così su Facebook o Twitter può capitare che migliaia di persone chiedano le dimissioni di un politico, il licenziamento di una giornalista, la rescissione del contratto di un presentatore o esprimano semplicemente una forte critica verso queste figure pubbliche per aver espresso valori discriminatori, sessisti, razzisti, omolesbobitransfobici.
C’è uno squilibrio di potere evidente in questo conflitto. Chi denuncia di subire ostracismo è chi siede in posti di rilievo dell’informazione, dello spettacolo e della politica, che quindi è nella posizione di influenzare il dibattito pubblico avendo una grossa risonanza mediatica. La reazione, invece, arriva dal pubblico. Non dallo Stato, non dal potere costituito. L’accostamento della cancel culture ai sistemi totalitari o a rigide pratiche dell’antica Grecia manipola volutamente i termini di questo squilibrio, evocando immagini che seducono e traggono in inganno. I roghi dei libri imposti dal nazismo erano espressione diretta del potere statale. L’ostracismo era una pratica che rifletteva la volontà dell’assemblea ateniese di allontanare dalla città una persona considerata pericolosa. Ma in Italia – e nemmeno negli Stati Uniti – chi esprime la cultura dominante e discriminatoria non corre nessuno di questi pericoli. Tant’è che leggiamo ogni giorno titoli sessisti in prima pagina, sentiamo battute razziste nei varietà, assistiamo a una propaganda politica avvelenata. Allora perché non si può più dire niente?
Non è casuale che le rivendicazioni avvertite come totalitarie siano quelle delle cosiddette minoranze – una minoranza è tale in quanto il sistema di riferimento la esclude –, perché mettono in discussione la cultura dominante nei suoi pilastri identitari. Sono percepite cioè come sovversive: pretendono di sconvolgere le regole e i limiti del dibattito pubblico, di imporre nuovi ordini di valori, di spostare i punti di riferimento e di includerne di nuovi, che fanno capo a gruppi sociali finora discriminati. Questa richiesta è radicale rispetto alla cultura dominante – vuole modificarne in profondità gli squilibri – e perciò provoca una reazione integralista: il mantenimento della tradizione, dello status quo, di ciò che è. Non importa delle minoranze, le loro pretese sono dittatoriali perché minano le fondamenta del pensiero dominante e vogliono cancellarlo. Ecco allora lo spauracchio del non si può più dire niente.
Qualche pericolo però c’è, ma bisogna guardare nella direzione opposta. Queste distorsioni dipinte in modo così esagerato non sono che un sintomo della resistenza alle battaglie per i diritti. Una resistenza che agisce a ben vedere la violenza denunciata per mano della cancel culture.
Chi lamenta di subire una censura ingiusta se riceve una reazione a una battuta discriminatoria sottintende che quella frase, quell’insulto, quel gesto siano normali opinioni, al pari delle altre. Essere razzisti, sessisti o omofobi è considerato alla stregua dell’essere credenti. Se non bastasse il buonsenso a cogliere la profonda differenza di questi pensieri, si può far riferimento alle leggi contro le discriminazioni, che colpiscono i comportamenti più gravi di chi incita all’odio. Banalizzare le discriminazioni quotidiane e non comprenderne la portata consolidatrice della cultura dominante – una cultura che nega o non riconosce ancora molti diritti – significa opporre resistenza alla riparazione delle sue storture. Questo, in effetti, non si può dire.
Il fatto, inoltre, che la denuncia di cancel culture provenga in particolar modo da chi detiene i mezzi e il potere di influenzare il dibattito, e quindi anche di contribuire a consolidare una certa posizione – quella dominante in questo caso –, rivela che questa cultura non ammette repliche. Se un giornalista titola in prima pagina insulti razzisti, ha espresso un pensiero e non si può più dire niente. Ogni posizione radicale verso i tratti identitari della cultura dominante assume le sembianze del conflitto sovversivo e come tale è pericolosa per la conservazione dello status quo. Ma la pretesa di un pubblico docile che acclami eternamente i suoi idoli tuttavia è pericolosa, perché soffoca il dibattito e atrofizza il pensiero critico. L’establishment deve confrontarsi con presidi pubblici e il pubblico ne rappresenta una forma diffusa.
I protagonisti di questa controriforma, infine, sono personaggi pubblici, persone che lavorano con le parole e con la propria immagine, che sono prodotti di consumo. Il pubblico può risultare determinante sulla vendita di quel prodotto, se non lo considera meritevole. Ma se si tratta di rivendicazioni di gruppi discriminati, che chiedono la rimozione di contenuti discriminatori, questa legge del mercato non vale più: è censura. Non solo. Fa parte dell’essere una figura pubblica la valutazione di cosa dire o fare, con la consapevolezza degli effetti che possono avere i propri gesti, le proprie affermazioni, tutto ciò che si rappresenta e simboleggia. Certo, è possibile sbagliare, eppure di fronte all’indicazione dell’errore non ci si ferma a riflettere ma si reagisce invocando la cancel culture. È molto difficile, infatti, mettersi in discussione e prendere una parte, questa sì, veramente scomoda, che critichi la maggioranza dominante. È ancora più difficile che a farlo sia una figura pubblica, perché la visibilità rende il tutto meno conveniente e il rischio di ostracismo e marginalizzazione in questo caso è concreto. In fondo è questo che non si può dire.
Questi segnali poco rassicuranti costituiscono anche delle lenti utili a leggere la realtà e i suoi rapporti di potere, poiché indicano indirettamente prospettive alternative. Se da un lato confermano una cultura dominante ancora ben equipaggiata, dall’altro sono la prova dell’esistenza di molteplici rivendicazioni di diritti. E sebbene il conflitto rimanga fortemente osteggiato, soprattutto in questo tempo di continui e profondi cambiamenti, è inevitabile ed è motore di democrazia. Non è vero che non si può più dire niente. Certe cose non si possono ancora dire. Per ora.