Articolo di Benedetta Geddo
Durante la prima lezione del corso di Storia del Cinema all’università, il professore ha cominciato spiegandoci il concetto di “enciclopedia visiva”. Con enciclopedia visiva, detto in parole semplici, si indica quello che gli spettatori sono abituati a vedere, quello che “non li sorprende”— nell’Ottocento, quando i fratelli Lumière hanno proiettato per la prima volta il loro filmato del treno in arrivo alla stazione La Ciotat, nessuno era abituato a vedere cose che non fossero opera e teatro, motivo per cui alcuni spettatori sono scappati credendo che il treno sarebbe arrivato loro addosso.
Oggi, nel 2018, la nostra enciclopedia visiva si è espansa, e di molto: le immagini in movimento sono diventate la norma, così come supereroi che volano a destra e a manca, esplosioni, draghi, 3D e tutti gli effetti visivi spettacolari che siamo abituati a vedere, appunto, durante una stagione cinematografica. C’è una cosa però che non fa ancora parte della nostra enciclopedia visiva, una cosa che a rigor di logica dovrebbe essere meno eclatante e fuori dall’ordinario di, non so, l’esercito di Thanos che attacca il Wakanda o l’Enterprise che va a velocità di curvatura: il grasso.
Uh, grasso, che brutta parola. Meglio “non magro”, meglio “robusto”. Perché la parola “grasso” si porta dietro talmente tanta connotazione negativa (“grasso” vuol dire anche “pigro”, vuol dire anche “brutto”, vuol dire anche “disgustoso”) che quando viene usata il nostro primo istinto è quello di negarla, se riferita a qualcuno che ci è vicino, o brandirla come insulto perché alla fine cosa ci può essere di peggio che essere grassi?

È proprio su questa parola e tutti i suoi sinonimi che comincia il documentario Nothing to Lose. La prima sequenza che vediamo è una ballerina grassa, e mentre lei danza illuminata da un occhio di bue cominciano due minuti in cui diverse voci fuori campo recitano tutti i modi in cui si descrivono le persone sovrappeso, da “voluttuosa” a “balena spiaggiata”, fino a termine con un “fat,” grassa, che risuona forte e chiaro mentre lo schermo sfuma al nero. Quando lo schermo si illumina di nuovo, la storia raccontata dal documentario può davvero cominciare.

Nothing to Lose verrà presentato in anteprima europea al Some Prefer Cake, festival del cinema lesbico di Bologna di fine settembre. Il documentario, che è stato realizzato quest’anno in Australia, racconta il processo di messa in scena dell’omonimo spettacolo Nothing to Lose della compagnia di ballo Force Majeure in occasione del Sydney Festival del 2015. Il documentario, girato da Kelli Jean Drinkwater, una delle due ideatrici dello spettacolo, parte dalle selezioni intraprese per trovare i sette ballerini principali e arriva fino alla sera della prima, passando per l’allestimento dello spettacolo, la sua promozione e i legami che si sono stabiliti tra i suoi protagonisti.
“I’m not interested in taking traditional dance vocabulary and putting it on these bodies. What I’m interested in is how do these bodies move differently and what can we discover that is truly of their own making.”
“Non sono interessata a prendere il vocabolario tradizionale della danza e applicarlo a questi corpi. Quello che mi interessa è in che modo questi corpi si muovono in maniera diversa, e quali siano le caratteristiche unicamente loro che possiamo scoprire.”
— Kate Champion, coreografa dello spettacolo
La scena d’apertura forte lascia spazio a un documentario altrettanto forte, nel senso di “d’impatto”, nel senso di “con un messaggio”, nel senso di “senza vergogna”. I sette ballerini principali provengono da ambienti diversi e hanno storie diverse, ma tutti un filo rosso che li lega: sono grassi senza scuse e senza timori, pur ammettendo che la strada verso l’accettarsi e l’amarsi sia sempre difficile, fatta di giorni in cui ci si sente in cima al mondo e altri in cui invece si atterra sul fondo.

“Le persone grasse sono invisibili o super visibili,” dice una dei protagonisti: spesso una persona grassa non può scegliere di raccontarsi autonomamente, ma è parte muta della narrativa di qualcun altro, un’altalena che di solito oscilla tra l’essere un fetish (e quindi non una “persona vera”) o un esempio di cattiva salute (e qui si potrebbe aprire tutto un discorso su obesità, sovrappeso e la buona abitudine che sarebbe non assumere i contenuti della cartella clinica di un’altra persona). Quello che lo spettacolo Nothing to Lose ha fatto, invece, è stato dare la possibilità a questi ballerini di raccontare le loro proprie storie e spezzare lo stampo stretto dello stereotipo, nel quale nessuno dovrebbe essere mai forzato.
Quindi, dopo la presentazione al festival di Bologna il 21 settembre, date una possibilità a questo documentario, che se la merità per l’autenticità con cui racconta la sua storia. Ma questa possibilità ve la meritate anche voi lettori di Bossy, per aumentare ancora un po’ la vostra enciclopedia visiva e renderla sempre più inclusiva.