Articolo di Alessandra Vescio
Sono cresciuta tra persone appassionate di calcio, discussioni cariche di entusiasmo, esplosioni di gioia e urla liberatorie al gol dell’ultimo minuto, sogni di imprese impossibili che diventano reali e tifosi dal dubbio spirito critico, ché se ami profondamente qualcosa è sempre un po’ difficile riuscire a guardarla con obiettività.
Così, l’ultima partita di Daniele De Rossi con la Roma sono andata a vederla allo stadio, l’addio di Totti l’ho vissuto con le lacrime agli occhi, i Mondiali femminili li ho seguiti come se a giocare ci fossero delle mie sorelle e l’arrivo dell’estate non è più sancito dall’inizio del Festivalbar come succedeva nella mia pre-adolescenza, ma dall’ultima giornata di Campionato (con l’unica differenza che ora non vado in vacanza, ma continuo a lavorare in modo proporzionale all’aumento delle temperature).
Ciò che mi è sempre piaciuto del calcio è quel suo essere una straordinaria riproposizione della società in cui viviamo: a volte esagerata, a volte caricaturale, ma spesso tanto più fedele alla realtà di quanto crediamo. Un microcosmo carico di pensieri, emozioni, abitudini, avvenimenti e approcci alle cose che mi incuriosisce molto più della tecnica e delle regole di gioco.
Per tutti questi motivi (e tanti altri), ho amato fin da subito “La Riserva”, il podcast sul calcio di Fenomeno.eu. Curato da Emanuele Atturo, caporedattore di L’Ultimo Uomo, Simone Conte, videomaker, conduttore di Roma TV e speaker di Roma Radio, e Daniele Manusia, direttore di L’Ultimo Uomo, “La Riserva” racconta il mondo del calcio con passione ma soprattutto con analisi e dati; con ironia ma anche con la serietà di chi sa che le opinioni necessitano di approfondimento. E poi parla di politica e attualità, razzismo e sessismo, molestie e mascolinità tossica, e anche di libri, film e serie TV. E si ride, tantissimo. Ogni puntata per me contiene una piccola rivelazione, un momento in cui imparo qualcosa di nuovo o mi identifico in riflessioni che mai (detto sinceramente) mi aspetterei di trovare in un podcast calcistico.
Di calcio, politica, discriminazioni di genere e di cosa voglia dire parlare di sport oltre gli stereotipi, ho parlato con i conduttori del podcast “La Riserva”.
Partiamo dagli inizi: ci raccontate brevemente chi siete e com’è nata l’idea del podcast “La Riserva”?
Siamo tre persone che amano da sempre guardare e giocare il calcio e a un certo punto delle nostre vite abbiamo iniziato anche a scriverne e parlarne come lavoro. L’idea del podcast è nata dal fatto che ne parlavamo tanto tra di noi, anche quando non stavamo lavorando, e che tutti e tre siamo da tempo appassionati di podcast: la conseguenza è stata piuttosto naturale. Ci abbiamo provato, ci siamo divertiti, ed eccoci qui con più di cento puntate alle spalle.
Il 2019 è stato l’anno dei Mondiali di calcio femminile e ne abbiamo viste e sentite di ogni: com’era ovvio, hanno prevalso le narrazioni stereotipate della femminilità e del calcio giocato da donne, mentre solo uno spazio ridotto è stato lasciato alle questioni tecniche. Come si racconta, secondo voi, il calcio femminile? E come si risponde a chi ancora sostiene che il calcio non sia uno sport da donne?
La cosa positiva di questo 2019 è che per la prima volta chi sostiene posizioni così sciocche si qualifica da solo: si fa molta meno fatica a capire che, per dire così, non hai un problema con il calcio femminile, ma con le donne. Però è vero che questi concetti più beceri spesso sono dissimulati. Spesso, invece di dire che le donne non dovrebbero giocare, trovi quello che dice “Ok, ma a me non piace”, oppure “Ok, ma il livello non è come quello del maschile”. È a questo tipo di argomentazioni apparentemente logiche e innocue che bisogna rispondere chiaramente, ed è quello che proviamo a fare parlandone tra di noi in puntata, quando l’attualità ce ne offre occasione.
Il calcio femminile si racconta dando la stessa dignità ai contenuti che si dà al maschile, quindi dando rilevanza al campo e a ciò che ci piace nel calcio, ovviamente senza distogliere lo sguardo dalla dimensione più politica e sociale che in questo momento storico è ovviamente importante.
Di recente Michele Uva, vicepresidente della Uefa, ha dichiarato di supportare l’introduzione del professionismo nello sport femminile italiano, purché “il sistema non rimanga in piedi solo grazie ai club maschili”. Qual è la vostra idea in merito? E quali sono secondo voi gli step necessari affinché il calcio femminile diventi un modello autosufficiente?
Il fatto che le squadre principali siano state obbligate ad avere un settore giovanile femminile ha dato una grande spinta al movimento. Sinceramente non capisco cosa si intenda con il fatto che non debba rimanere in piedi grazie al maschile. Il contesto è quello in cui stiamo cercando di recuperare a dei torti passati, quelli che hanno portato molte meno donne a giocare a calcio: è ovvio che ci vuole una forzatura, altrimenti lo stato delle cose rimarrà uguale. Il punto è che questa forzatura (neanche così grande) ha portato già a moltissime iscrizioni in più e a moltissime ragazze che, semplicemente, hanno potuto giocare a calcio in gioventù. La recente apertura al professionismo, unita all’interesse di brand e TV, sono segnali nella giusta direzione. Il punto però – e questo va ripetuto bene – non è quello di “spingere” il calcio femminile a nessuno, semmai di creare i presupposti perché ci sia un prodotto e che sia appetibile. Poi il mercato deciderà, ma di certo non si può far finta che il mercato abbia già deciso, quando fino a pochi anni fa le persone non avevano neanche squadre femminili da tifare. E in ogni caso non è solo un discorso di mercato ma anche di parità di genere in un settore incredibilmente maschilista.
Sono ancora pochissime le donne che occupano ruoli di potere in società, ancora meno nel mondo del calcio. Credete sia possibile un cambiamento in tal senso? E come potrebbe succedere?
È proprio quello che dicevamo poco fa. Stiamo facendo i conti con un cambiamento sociale forte, ormai da parecchi anni. Il calcio può prendere parte al cambiamento e fare da arena simbolica, ma resta uno sport in cui c’è ancora il tabù dell’omosessualità e della salute mentale, perché intaccano l’idea di calciatore come esempio di virilità. Certo che ci vogliono più donne in posizioni di potere, anche nel calcio maschile, ma forse ci vorrebbe qualcuno con una visione forte, sostenuto da un’opinione pubblica meno conservatrice. Magari succederà in qualche altro Paese, come sta succedendo in politica.
I media hanno un enorme potere per quanto riguarda la percezione della realtà: basta ad esempio la descrizione degli abiti che indossava una vittima nel momento in cui ha subito una violenza o il definire come “esagerate” le reazioni di chi è stato discriminato per il colore della propria pelle, per dare tutta un’altra lettura di un determinato abuso. Credete che il cambiamento debba partire da chi racconta la realtà? Qual è secondo voi il ruolo che dovrebbe ricoprire un/una giornalista oggi?
Certo che chi racconta la realtà ha un grande ruolo ed è un peccato che in Italia si finisca spesso per fare da eco alle opinioni più trite senza invece provare a essere veramente coraggiosi. Sto pensando agli editoriali in cui si cerca di tenere conto delle ragioni di tutti, anziché ristabilire una gerarchia tra i valori. Nessuno di noi è “giornalista” per come lo si intende in Italia, non abbiamo il tesserino e non è compito nostro dire come dovrebbero svolgere il loro lavoro i tesserati. La vera domanda forse è: quale dovrebbe essere il ruolo dei giornali? Tenere conto di tutte le opinioni, anche quelle evidentemente sbagliate e pericolose, oppure provare a ragionare, fare chiarezza e impostare una gerarchia di valori?
Cosa ne pensate dei provvedimenti che alcune squadre di calcio stanno prendendo in seguito a episodi di razzismo? Cosa sarebbe giusto fare quando un giocatore viene subissato di ululati o insulti razzisti dentro e fuori dallo stadio? E quando è un giornale a scrivere commenti offensivi, invece?
Su questo siamo ovviamente d’accordo sul condurre una lotta al razzismo seria, coerente e senza ambiguità, ma abbiamo anche opinioni diverse tra di noi sui provvedimenti specifici da mettere in atto. Prendere delle misure era (è) necessario, anche misure simboliche. Forse però si tende a criminalizzare i tifosi anziché a vederli come una cartina di tornasole della nostra società. Se non si capisce perché è sbagliato fare i versi da scimmia ai giocatori di colore, va benissimo prendere provvedimenti puntuali (se possibile, individuali) ma forse il problema è anche fuori dallo stadio. E questo lo confermano le numerosissime uscite sbagliate di addetti ai lavori (dirigenti, giornalisti, ecc.). Finché la nostra cultura e il discorso pubblico alimenteranno il razzismo non possiamo, purtroppo, aspettarci niente di diverso dentro i confini dello stadio, che è sempre il riflesso della società.
La calciatrice Eniola Aluko ha di recente scritto un articolo su The Guardian per parlare del suo addio alla Juventus. Tra le motivazioni, cita l’arretratezza di Torino in termini di apertura alla diversità e la presenza del razzismo in Italia e nel calcio italiano. A preoccuparla particolarmente è la sensazione che le proprietà delle squadre di calcio maschile e i tifosi considerino gli atti discriminatori come normali espressioni della cultura del tifo. Cosa avete provato e pensato dopo aver letto le sue parole?
Eh, purtroppo non ci è sembrato di leggere niente di nuovo. Anche in quel caso in molti hanno relativizzato, ma alla fine la giustificazione di molti è che “è solo tifo”. Quindi sì, si sta provando a normalizzare la discriminazione razziale come parte dell’esperienza di andare allo stadio.
Che relazione c’è tra calcio e politica?
Domanda troppo complessa, dai. Te la rigiriamo dicendo che noi non pensiamo di parlare propriamente di politica neanche quando parliamo di questi argomenti. Noi abbiamo l’impressione di parlare di cose che fanno parte della nostra vita, su cui siamo costretti a riflettere. E spesso il calcio è il punto di partenza per queste riflessioni. È una relazione “inevitabile” e “innegabile”, possiamo dire. Ecco.
Spesso vi abbiamo sentito parlare di mascolinità tossica. Secondo voi, come la si può combattere sia in generale che in ambito sportivo?
Ci vuole autocritica e voglia di ascoltare chi riesce, con fatica, a parlare di come noi o il sistema di cui facciamo parte lo ha fatto soffrire. Vale per uomini e donne ovviamente. Bisogna pensare un po’ meno alla propria libertà e un po’ di più alla sensibilità altrui. Faccio un esempio: durante le cene di Natale un parente si lamentava del fatto che ormai a lavoro non si possono neanche più fare complimenti innocenti sui vestiti o i capelli di una donna. A parte che non è vero: se hai un rapporto consolidato con una collega non penso ci trovi niente di male se le dici che le sta bene il taglio nuovo, anzi. Ma poi, anche se fosse, la domanda può essere: è più grave per te tenerti un complimento o per una donna subire una molestia perché qualcuno è andato oltre i complimenti? E sono pochissime le donne che non hanno subìto molestie, a lavoro, in luoghi pubblici, in famiglia. A quel parente (che tutti abbiamo) forse la prima cosa da dire è: chiedi alle donne che conosci la loro esperienza.
Cosa può e deve fare un uomo oggi contro le discriminazioni di genere?
Comportarsi meglio e ascoltare di più.
Chi è la vostra calciatrice preferita?
Miedema, Maroszan e Giugliano. Indovinate voi chi di noi preferisce chi.
Ci suggerite un libro, un film e una serie TV a testa che in qualche modo vi hanno cambiato la vita?
Ok, ci risentiamo quando abbiamo una settantina d’anni e potremo essere lucidi nel considerare i cambiamenti della nostra vita. Dai, ci proviamo a rispondere ma è una domanda difficile.
Daniele: La Resa dei Conti (Saul Bellow), Departures (Yōjirō Takita), The Leftovers.
Emanuele: Il soccombente (Thomas Bernhard), Caché (Michael Haneke), Mad Men.
Simone: Il sistema periodico (Primo Levi), Full Metal Jacket (Stanley Kubrick), Lost.
“La Riserva” è un podcast di varietà calcistico disponibile su Spotify. Le puntate escono (quasi) ogni venerdì. E sì, lo straconsiglio (anche a chi non è appassionato di calcio).