Articolo di Margherita Brambilla
Su Non Una Di Meno si è detto tanto ma raramente si è andati alla fonte.
Con Bossy ho deciso di parlare direttamente con una delle portavoci della sezione milanese e farle alcune domande.
Cominciamo col contesto: chi sei e come sei legata a Non Una Di Meno?
Sono Silvia, e sono un’attivista di Non Una Di Meno – Milano. Il mio primo incontro col movimento è stato alla manifestazione del 2016 a Roma, durante la quale ho girato un video che poi ha avuto una buona diffusione sui social. Da lì ho partecipato alla prima riunione di Non Una Di Meno – Milano, e sono anche entrata nella comunicazione nazionale.
Quindi ti sei avvicinata da partecipante, stando nel corteo?
Esatto, sono andata lì da “reporter”, mi piaceva l’idea.
Hai già menzionato il fatto che sei di Non Una Di Meno – Milano, e che quindi c’è una separazione geografica tra i vari gruppi. Potresti parlarci dell’organizzazione di Non Una Di Meno?
È un movimento orizzontale e nelle assemblee il metodo decisionale è basato sul consenso. È molto dislocato territorialmente: il nucleo originario è Roma, da lì sono nati subito gruppi nelle grandi città – Milano, Bologna, Torino – ma poi è apparsa una miriade di Non Una Di Meno, dai capoluoghi alle cittadine più piccole. Non c’è nessun manuale su come ci si riunisce. Il gruppo comunicazione nazionale, quando viene contattato da persone che chiedono informazioni tramite la pagina Facebook nazionale su come dar vita a NUDM nel loro territorio, consiglia di solito di aprire una canale Facebook territoriale attraverso cui la gente interessata possa aggregarsi. Il gruppo nazionale ha un ufficio stampa nazionale che si accorda con gli uffici stampa locali; c’è poi un gruppo di comunicazione social nazionale; e con l’ultima assemblea nazionale (3 febbraio 2018 N.D.A.) si è costituito un gruppo per le grafiche e un gruppo di traduzione.
Nessuno di questi è un organo dirigenziale. Non c’è un organo dirigenziale in Non Una di Meno, questi sono luoghi operativi.
Poiché non c’è una parte dirigenziale o un manuale su come lavorare a livello locale, come viene gestito il messaggio generale di Non Una Di Meno? C’è comunque una direttiva, una direzione?
Allora; la base comune e politica è il Piano Antiviolenza che abbiamo scritto in un anno di lavoro. Il giorno dopo la prima manifestazione del 26 novembre 2016 c’è stata un’assemblea nazionale in cui le partecipanti si sono divise in nove tavoli tematici che hanno lavorato nell’arco di cinque assemblee nazionali. I temi erano e sono:
1. percorsi di fuoriuscita dalla violenza;
2. ambito legislativo e giuridico;
3. lavoro e welfare;
4. diritto alla salute sessuale e riproduttiva;
5. educazione e formazione;
6. femminismi e migrazioni;
7. narrazione della violenza attraverso i media;
8. sessismo nei movimenti;
9. terra, corpi, territori e spazi urbani.
Il piano è stata un’elaborazione collettiva che partiva dai report dei tavoli tematici, cioè dal frutto della scrittura di centinaia di persone. Alla fine ne è stato sintetizzato il Piano Antiviolenza. Quella è la base su cui ci muoviamo. L’unità tematica e politica è data da quel piano, da cui non si può uscire. Non può esserci una Non Una Di Meno che si dichiara razzista, o MRA.
Dopodiché la ricchezza di Non Una Di Meno è data dal fatto che ogni territorio si concentra sui propri problemi e declina il Piano su di sé; i problemi che ha Catania non sono sempre gli stessi che ha Milano.
Ti ho chiesto del messaggio generale di Non Una Di Meno in particolare ricordando l’episodio dello scorso 25 novembre. Nell’occasione di quel corteo aveva fatto scalpore un video in cui alcune manifestanti discutevano con un uomo sulla possibilità per lui di sfilare nelle prime file. I toni erano stati molto accesi: una delle frasi più controverse era stata “tu qui non dovresti proprio esserci”.
La prima domanda a riguardo è: perché alle manifestazioni devono stare davanti le donne?
Intanto dipende da quale manifestazione stiamo considerando: per quella del 25 novembre – cioè quella per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – si è scelto di far sfilare in testa al corteo i Centri Antiviolenza. Quindi non donne a caso, ma le operatrici dei Centri Antiviolenza. I CAV hanno una storia che va di pari passo con la storia del femminismo: si sono formati negli anni ‘80 allo scioglimento del movimento femminista degli anni ‘70 e sono stati i primi centri a farsi carico del problema della violenza domestica subita dalle donne. Sono gli unici che se ne occupano da trent’anni, e nonostante questo ricevono pochissimi finanziamenti pubblici, si mantengono solo tramite bandi, sono sempre a rischio di chiusura. Per tutte queste ragioni la nostra è una presa di posizione politica per dire che noi sosteniamo non solo l’attività che queste persone svolgono per le donne ma anche tutto l’agito politico che c’è dietro questo tipo di azione.
La percezione di quel momento è stata però che all’interno di Non Una Di Meno ci fossero delle intenzioni separatiste. Quindi la seconda domanda è: come si gestisce la presenza di femministe separatiste?
No, Non Una Di Meno non è un movimento separatista, tant’è vero che fin dagli inizi nel 2016, alcune ali di femminismo separatista si sono allontanate dal movimento. Uomini nel movimento ce ne sono: ovviamente – come per tutto quello che riguarda le questioni di genere – sono la netta minoranza perché tendenzialmente è più difficile che abbiano fatto un percorso di riflessione sulla costruzione della maschilità e del maschile storico; quelli che si avvicinano hanno già loro stessi delle basi femministe. In ogni caso, si rapportano con le donne del movimento sempre alla pari, non c’è una diversa presa di parola in assemblea.
Sicuramente i problemi in occasione di quella manifestazione sono stati due: prima di tutto, fino a quel momento la copertura mediatica, soprattutto televisiva, era stata scarsissima, per cui quel video è stato la prima diffusione del corteo al grande pubblico. Per me il peccato è stato che di un corteo di tre ore, pacifico, al quale hanno partecipato anche uomini, sia uscito solo quel video e non ci sia stata un’altra narrazione.
L’altro problema è che, a livello di atteggiamento di piazza, effettivamente qualcuna ha perso la pazienza. Quella persona era un contestatore e nel video mancano tutti i pezzi intermedi in cui gli si spiegano normalmente le ragioni politiche della scelta di far sfilare davanti i CAV, e che poteva tranquillamente partecipare alla manifestazione – semplicemente non insieme ai CAV.
Però il Piano s’intitola “Piano Femminista contro la violenza maschile e di genere”. In molti hanno criticato la specificazione di violenza “maschile” accanto a violenza di genere. Perché la specificazione di “maschile”?
Le risposte sono due; la prima è una ragione storica e politica. Dentro il movimento sono fondamentali i Centri Antiviolenza, che vengono storicamente dal femminismo della differenza; per loro arrivare a parlare di “violenza di genere” è stato un approdo politico perché per il femminismo della differenza si parla di “violenza maschile sulle donne”. Quindi lo slogan è anche una mediazione politica.
Il secondo punto riguarda i dati. Non mi spaventa un discorso complesso che tiene insieme da un lato la statistica, che dice che gli autori di femminicidi e stupri sono di sesso maschile, e dall’altro l’affermazione che questa non è un’accusa nei confronti di tutti gli uomini. è un discorso che facciamo nei confronti del maschilismo e della costruzione sociale della virilità; nella costruzione storica del maschile sono autorizzate l’aggressività, la rabbia e un certo uso della violenza. Se non mettiamo in discussione questi parametri, non usciamo dal problema. Perciò, quando diciamo “la violenza sulle donne la commettono gli uomini”, non significa che tutti gli uomini sono violenti – sappiamo perfettamente che non è così – ma vogliamo sottolineare che nella totalità dei casi di femminicidio, l’autore è uomo, e nell’80% dei casi quest’uomo è prossimo alla donna; è un partner, ex partner, padre o una conoscenza stretta. Questo ci parla di un problema sociale del maschile.
Quindi il senso è “maschile” utilizzato come categorizzazione sociale, non come “uomini”.
Esatto. La costruzione storico-sociale-culturale del maschile.
Passiamo all’8 marzo, parlaci dello sciopero nello specifico.
Come l’anno scorso, sarà uno sciopero globale delle donne. Tutti i modi per partecipare e aderire, anche se si appartiene a categorie che non possono scioperare, si trovano sul blog e sulle pagine Facebook; di nuovo ci sono delle differenze a livello locale: lo sciopero riguarda la violenza di genere in generale, ma le varie città si concentrano sui problemi che le riguardano più da vicino. Per esempio, Milano si concentra sul problema della violenza economica. Il concetto di violenza economica è legato al fatto che la percentuale di donne in Italia inattiva o disoccupata è altissima se paragonata al resto d’Europa; queste donne a livello economico dipendono dal nucleo familiare: in caso di violenza domestica la non autonomia economica rende la denuncia ancora più difficile.
Ma non si tratta solo di questo: la conciliazione di lavoro e genitorialità, sia sul tema delle dimissioni in bianco che sull’assenza di un vero congedo di paternità; il gender pay gap; la distribuzione del lavoro domestico; il tasso di povertà delle madri single; la sessualizzazione nel mondo del lavoro.
Perché proprio uno sciopero?
Lo sciopero è importante. Va dritto al punto: le donne hanno sempre svolto un’enorme quantità di lavoro non riconosciuto e non pagato, e oggi ancora di più, perché non c’è solo il lavoro domestico ma anche il lavoro sociale ed emozionale e relazionale che ci si aspetta le donne svolgano nel lavoro retribuito. Lo sciopero è una denuncia del lavoro produttivo e riproduttivo – nel senso di lavoro sociale, di cura e di relazione legato alla riproduzione – che fanno le donne; è lo strumento che più mette in luce il fatto che se tutte le donne del mondo scioperassero, il mondo si fermerebbe.