Secondo l’indagine sulla violenza contro le donne condotta a livello europeo dalla FRA (European Union Agency for Fundamental Rights), “la maggior parte delle donne vittime di violenza non denuncia la propria esperienza alla polizia o a organizzazioni di sostegno alle vittime”. Non solo: “la maggior parte delle donne vittime di violenza non entra in contatto con il sistema della giustizia né con altri servizi”.
Secondo l’Istat, i tassi di denuncia riguardano il 12,2% delle violenze da partner e il 6% di quelle da non partner. Leggendo questi dati sorge spontanea una domanda: perché? Perché le donne non denunciano? La risposta è incredibilmente complessa, ma soprattutto: la domanda è sbagliata, in particolare quando è posta alle dirette interessate. Vediamo perché.
Nel momento in cui chiediamo a una vittima spiegazioni in merito alla violenza subita, invece di prestarle assistenza, stiamo praticando victim blaming: stiamo cioè facendo ricadere sulla vittima la responsabilità, anche solo parziale, della violenza che questa ha subito, invece di guardare al reale responsabile. Questa è una questione particolarmente delicata nel caso della violenza sessuale e della violenza domestica, dove le numerose falle nel sistema giuridico, ma anche la mancata sensibilizzazione ed empatia in contesti in cui la vittima si ritrova dopo aver sporto denuncia, portano spesso e volentieri al fenomeno conosciuto come “vittimizzazione secondaria“. La vittima, magari nel momento in cui trova la forza di denunciare, viene sottoposta a una trafila di domande, richieste di spiegazioni o dettagli superflui che spesso portano la persona a rivivere la violenza subita, processo che viene paragonato a una nuova violenza, portando appunto a questa nuova vittimizzazione, detta secondaria.
Ciò avviene perché si parte, spesso anche inconsciamente, dal presupposto di dover trovare una qualche incoerenza nella narrazione che porti la denuncia a perdere fondamento, minando quindi la credibilità della vittima. È importante non sottovalutare la necessità dell’indagine legale per fare chiarezza sul caso e sulla denuncia: il problema spesso sta nel come questi processi sono strutturati e nei pregiudizi sessisti dei professionisti e delle professioniste che rischiano di martoriare ulteriormente la vittima. Nelle sentenze vengono poi spesso inseriti dettagli o osservazioni che poco hanno a che fare con il caso in sé ma che, anche quando dalla parte della vittima, insinuano dubbi sulla sua credibilità e distolgono l’attenzione dal problema della violenza di genere in quanto fenomeno.
Un altro punto cruciale è proprio la formazione dei/delle professionisti/e che svolgono un qualsiasi ruolo all’interno del percorso di uscita dalla violenza della donna: dalle forze dell’ordine che hanno spesso il primo contatto, ai professionisti sanitari, fino ad avvocati e giudici. Tutte le parti coinvolte devono essere formate sulle questioni di genere per prestare la massima assistenza, riconoscere i segnali della violenza e agire di conseguenza, anche con le parole giuste. Ad oggi, purtroppo, così non è.
Chiedere, per esempio, a una donna che trova dopo molto tempo la forza di denunciare una violenza “perché non l’abbia fatto prima”, crea proprio una dinamica di victim blaming che sposta la responsabilità dall’aggressore alla vittima. Numerose testimonianze sotto l’hashtag del #MeToo, ad esempio, soprattutto quelle riguardanti violenze commesse diversi anni prima, sono state pubblicamente smontate e criticate da chi commentava che, essendo passato troppo tempo dalla violenza in sé, si trattava chiaramente di falsità.
Iniziamo a vedere quindi alcune motivazioni che possono scoraggiare una donna dal denunciare una violenza commessa da un uomo (se il #MeToo ci ha insegnato qualcosa):
- la paura di non essere creduta
- il timore di essere attaccata in un momento di estrema vulnerabilità
- la concreta possibilità di una vittimizzazione secondaria a livello sociale, mediatico e giuridico
Per quanto riguarda invece la violenza domestica, è fondamentale sottolineare che il sistema giuridico italiano è ancora estremamente in difficoltà nella gestione delle denunce per maltrattamenti in famiglia: ci sono numerose falle nel sistema che rischiano di mettere a rischio la donna, invece di proteggerla. Troppo spesso ci si accanisce sulla denuncia in sé, semplificando di molto la questione. Denunciare è importantissimo, ma lo è anche analizzare le dinamiche che ciò scatena in un contesto di violenza domestica, dove il rischio per la donna può essere altissimo e aumentare – paradossalmente – proprio dopo aver lasciato il maltrattante. Molto spesso, infatti, il rischio di femminicidio è più alto subito dopo che la donna decide di agire: secondo il III Rapporto EURES due terzi dei femminicidi avviene nei tre mesi strettamente successivi alla fine della relazione. Questo perché l’uomo potrebbe ad esempio sentirsi attaccato o rifiutato e reagire con violenza, e le istituzioni giuridiche ancora falliscono nell’assicurare protezione e tutela alle donne che scelgono di denunciare.
Questi dati non dovrebbero però scoraggiare le donne a denunciare, bensì incoraggiare chiunque possa, all’interno del proprio lavoro, a entrare in contatto con le donne vittima di violenza, a formarsi sulla questione e sanare le falle del sistema. Perché nessuna donna merita di vivere nella violenza, e i cavilli legali, burocratici o operativi non dovrebbero essere un motivo per rimanervi.
Per fortuna, qui entrano in gioco i Centri Antiviolenza, strutture indispensabili per le donne vittime di violenza e gli eventuali minori a carico, che incentrano il proprio lavoro sulla tutela della donna che chiede assistenza. Le donne che si sono rivolte a un Centro Antiviolenza in Italia nel 2017 sono oltre 43mila, di cui il 67,2% ha iniziato un percorso di uscita dalla violenza (dati Istat). Il compito dei centri non è solo, come spesso si pensa, quello di assistere la donna durante la separazione dal maltrattante, ma di svolgere una valutazione del rischio, ascoltare la donna e supportarla nel migliore dei modi. Tra questi ci sono l’accoglienza in case rifugio, il supporto psicologico, un percorso verso l’autonomia, il supporto ai figli minori e, se necessaria, la mediazione linguistica. In alcuni casi si tratta di assistere una donna che ha intrapreso un percorso di uscita dalla violenza nella sua quotidianità e aiutarla a sopravvivere, laddove non fosse possibile una separazione o semplicemente la donna non volesse separarsi.
Perché non ha denunciato? Perché non se n’è andata? Come ha potuto accettare di subire una situazione del genere?
La sfilza di dolorose domande da cui prende vita questo articolo, che danno la colpa alla vittima per la situazione in cui si trova, parte dal presupposto che esista una soluzione magica e che la donna non abbia il coraggio di metterla in atto: una volta che denuncerai, ogni cosa andrà al suo posto. Tutto cambierà. Dalla realtà dei fatti emerge chiaramente però che non è così: anche le donne che denunciano spesso non vedono alcuna risposta sul piano legale e, frequentemente, il voler uscire da una situazione di violenza si ritorce contro la vittima.
Perché le donne non denunciano?
L’Istat riporta delle risposte, ma ogni donna ha la sua storia e il suo perché.
Le donne non denunciano perché hanno imparato a gestire la situazione da sole (39,6% per le violenze da partner e 39,5% da non partner) o perché il fatto non era grave (rispettivamente 31,6% e 42,4%), ma anche per paura (10,1% e 5,0%), per il timore di non essere credute, la vergogna e l’imbarazzo (7,1% e 7,0%), per sfiducia nelle forze dell’ordine (5,9 e 8,0%) e nel caso della violenza nella coppia perché amavano il partner e non volevano che venisse arrestato (13,8%).
Chi chiede perché le donne non denunciano non comprende la moltitudine di ragioni che portano le donne vittime di violenza a volersi semplicemente proteggere, senza farsi paladine di una causa con la quale avrebbero preferito non avere nulla a che fare.
Chi chiede perché le donne non denunciano, e lo fa in buona fede, ha il privilegio di non riuscire a comprendere fino in fondo come debba sentirsi una donna vittima di violenza in un sistema patriarcale che le rema contro giorno e notte.
Chi chiede perché le donne non denunciano dovrebbe leggere sui giornali le storie di femminicidi in cui la donna aveva denunciano una, due… dodici volte, ma è stata uccisa lo stesso.
Chi chiede perché le donne non denunciano non ha scusanti nel non sapere che la denuncia non garantisce alcuna salvezza.
Lo scopo di questo articolo non è quello di scoraggiare la denuncia: in ogni situazione in cui la donna prende la decisione di denunciare e, nel farlo, riceve l’assistenza necessaria dalla rete di servizi intorno a lei, la denuncia serve a lei e a tutte. La denuncia è necessaria e ci sono donne per cui rappresenta la via d’uscita dalla violenza, ma non si tratta di un passaggio automatico, piuttosto si tratta di un percorso. Bisogna poi ricordare la differenza tra un mondo ideale, in cui a ogni accusa corrisponde un’azione legale, e il mondo in cui viviamo noi, in cui le falle nel sistema sono per qualcuna una questione di vita o di morte, e dove talvolta si preferisce non rischiare. Nell’attesa di vivere in quel mondo ideale, invece di colpevolizzare le vittime che non denunciano, perché non concentrarci su quelle che lo fanno? Offriamo loro la miglior protezione possibile, consulenza psicologica e assistenza legale empatiche e attente; assicuriamoci che abbiano accesso alla rete di servizi loro dedicata e formiamo gli addetti che entreranno in contatto con loro alle questioni di genere.
Solo quando tutte le donne che denunciano saranno assistite e tutelate al meglio, potremmo permetterci di chiedere perché le donne non denunciano. Fino ad allora, rimbocchiamoci le maniche.