Ho scoperto il torinese Enrico Bisi dopo essere andata a vedere al Bloom, storico locale in Brianza (sì, quello del quale Manuel Agnelli indossa la t-shirt durante la conferenza stampa di X-Factor), la proiezione di Numero Zero, documentario del quale è il regista, che racconta l’età dell’oro dell’Hip Hop italiano attraverso la diretta voce dei suoi protagonisti.
A casa, mi sono messa a spulciare tra i suoi lavori precedenti.
Di documentari divulgativi vado matta.
E ho trovato Pink Gang, che racconta la storia della Gulabi Gang (Pink Gang in inglese, gulabi infatti significa rosa in hindi) gruppo attivista politico fondato ad Uttar Pradesh nell’India del nord da Sampat Pal.
Sampat Pal è una donna semianalfabeta ed è stata costretta a sposarsi, come accade ancora oggi a tante bambine in India, all’età di dodici anni.
Oggi ne ha cinquantasei.
Nel corso della vita si è affrancata, ha imparato a cucire per rendersi indipendente e nel 2006 ha fondato la sua gang, che prende il nome dall’uniforme che indossano le donne, delle vere e proprie eroine locali, che ne fanno parte: un sari rosa.
La banda, a mo’ di corpo vigilante, si muove giornalmente, a sostegno non solo delle donne, ma di tutta la popolazione più povera, ed è diventata un riferimento grazie alle proteste, alle azioni contro i fenomeni di ingiustizia, violenza e criminalità che si verificano nel Paese.
L’obiettivo è quello di cambiare le cose, ridurre la malavita, restituire una parità sociale e di genere che non c’è mai stata, far prendere coscienza e consapevolezza dei propri diritti, alfabetizzare ed insegnare un lavoro.
Pink Gang, come si può facilmente evincere nonostante il titolo, è un documentario ben lontano dall’essere roseo, sprigionando ed urlando a gran voce il dramma della situazione in cui in India verte parte della popolazione.
Al contempo, però, trasmette la maestosa e splendida forza di Sampat Pal e della sua banda, si percepisce la loro determinazione al di là dell’ostruzionismo e degli ostacoli che incontrano nella loro attività.
Dopo aver visto il documentario, il desiderio è stato quello di sentirne parlare direttamente da Enrico, così gli ho chiesto se potesse rispondere a qualche domanda.
E lui, che ringrazio ancora, gentilmente, mi ha dedicato un poco del suo tempo.
Enrico, innanzitutto ti faccio una domanda forse banale, ovvero: quando hai iniziato ad appassionarti di documentari e a “girare”?
La passione nasce molto tempo fa, già durante gli studi universitari. L’idea di farne uno, dopo aver girato già cortometraggi, video d’arte e videoclip, risale a una decina di anni fa. Quasi per caso, in realtà, perché avevo proposto a un produttore una sceneggiatura per un corto da girare tra l’India e l’Italia e lui mi propose di fare un documentario.
Così iniziai a scrivere Solo Un Giorno.
Da cosa è nata l’idea di Pink Gang? Come sei arrivato a Sampat Pal?
Proprio durante le riprese di Solo Un Giorno, nel 2007, mi parlarono di Sampat e della Pink Gang e ne rimasi subito affascinato. Però all’epoca il fenomeno era davvero circoscritto e mi sembrava anche molto “colorato” dalle tipiche affabulazioni indiane.
Lo scordai per qualche tempo. Poi uscì un articolo sulla BBC indiana, che poi rimbalzò sulle testate in tutto il mondo e da lì capii che mi sarebbe piaciuto raccontare quella storia. Mostrare quelle immagini di donne agguerrite vestite con un sari rosa che brandiscono un bastone dello stesso colore per difendersi. Così chiesi a Dilip, il nostro line producer, di andare a verificare se la storia fosse vera, di andare ad incontrare Sampat per capire se fosse stata interessata a un film documentario su di lei e su quello che stava facendo.
In quanto tempo è stato realizzato Pink Gang? Qual è stata l’accoglienza?
Sampat ci ha accolti subito bene, era convinta che fossi una sorta di reincarnazione di suo fratello scomparso molti anni prima, quindi anche per pura fortuna sono entrato subito nelle sue grazie. L’ambiente esterno invece era piuttosto ostile. Soprattutto la polizia, ovviamente.
A quale scena sei più legato?
Alla scena della processione delle donne alla fine del meeting annuale della Pink Gang. Credo che lì ci sia davvero la sintesi di tutto.
Che ruolo può avere l’arte, nel tuo caso il cinema, nella lotta all’ingiustizia ed alle discriminazioni?
A volte penso che non serva a nulla, altre volte penso sia un elemento indispensabile.
Forse la verità sta nel mezzo. Il mondo lo si può cambiare attraverso le piccole cose, il quotidiano, e quindi anche attraverso l’arte.
Prendi il caso di Fuocammare di Rosi, un esempio paradigmatico che fa capire che sensibilizzare l’opinione pubblica è fondamentale ma non risolve completamente i problemi. L’importante, l’aspetto necessario di tutto questo è che non si trascuri l’aspetto artistico a vantaggio di quello quello sociale, altrimenti il discorso non regge.