Articolo di Lenny Melziade
Ogni anno, dal 1901 a questa parte, in autunno, il mondo accademico e la stampa puntano i riflettori sulla Svezia perché vengono annunciati i Premi Nobel.
Se ne è parlato anche negli ultimi giorni in Italia, sia per via della dipartita di Dario Fo, Nobel per la Letteratura nel 1997, sia per il discusso Nobel, sempre per la Letteratura, al menestrello americano Bob Dylan.
Ma cos’è di preciso un Premio Nobel?
Innanzitutto permettetemi un po’ di saccenza da “scandinavista” imbruttita.
Alfred Nobel era un chimico e filantropo svedese, che si arricchì grazie ai suoi brevetti per detonatori e polveri da sparo, ma decise di usare tutto il suo patrimonio istituendo dei premi a suo nome, attorno al 1895, destinati a coloro che hanno «portato grande beneficio all’umanità» in campi quali quelli della Medicina, della Fisica, della Chimica, della Letteratura e della Pace.
Successivamente, nel 1968, la Sveriges Riksbank (Banca di Stato Svedese), decise di celebrare il suo trecentesimo anniversario donando un’ingente somma di denaro al fine di istituire il Premio Nobel per le Scienze Economiche.
Per quanto non si tratti di un premio pensato direttamente da Alfred Nobel, viene annunciato assieme agli altri e consegnato durante la sontuosa cerimonia tenuta a Stoccolma.
Materialmente, il premio consiste in una medaglia d’oro diciotto carati, un diploma e un premio pecuniario la cui somma varia ogni anno, ma che ammonta generalmente a circa 8 milioni in corone svedesi, pari a circa 825 mila euro.
Ogni studioso può nominare un collega come papabile vincitore di uno dei premi, ma la designazione del vincitore spetta al relativo Comitato, che non rivela i nomi degli altri candidati per almeno cinquant’anni.
Dando un’occhiata ai vincitori che negli ultimi anni hanno portato a casa (o hanno dato in beneficienza) il ragguardevole gruzzolo, è chiara una cosa: il Premio Nobel ha un problema con le donne.
Si tratta di un premio ad appannaggio – purtroppo – quasi esclusivamente maschile.
Con dati alla mano, è infatti lampante come la stragrande maggioranza dei premi venga insignita a uomini. Tra il 1901 e il 2016, le donne che hanno vinto il premio sono state solo quarantanove a fronte dei novecentoundici premi totali.
Va comunque specificato che ci sono stati anni in cui il premio non è stato elargito e che spesso il Nobel per la Pace viene consegnato a organizzazioni e associazioni. Nonostante ciò, il gender gap è abbastanza alto.
Quest’anno i premi appena annunciati non vedono alcuna presenza femminile.
Poco dopo l’annuncio del premio a Bob Dylan, l’account ufficiale del Nobel su Twitter ha postato un aggiornamento un po’ ridicolo:
“14 donne hanno vinto il premio Nobel per la Letteratura tra il 1901 e il 2015”.
Bene ma non benissimo – come si suol dire – perché a me e a tanti altri utenti, sono sembrate un po’ poche. Anche uscendo dal campo della letteratura, sono circa cinquant’anni (dal 1963) che un premio per la Fisica non viene assegnato a una donna, e di valide nomination potrebbero essercene a iosa. Un altro esempio vede una sola donna in quarantasette anni vincere il premio per l’Economia.
Questo andamento non può essere certo contrastato dai primati che detengono alcuni premi “rosa” – Malala, per esempio, è stata la più giovane donna a vincere un premio Nobel; Marie Curie è l’unica donna a vincerne due a distanza di anni e per due campi differenti.
Nel nuovo millennio, tra il 2001 e il 2015 (escludendo, quindi, quest’ultima edizione), solo diciannove donne sono state insignite del premio – circa una donna all’anno. Non è invece insolito vedere Re Carl Gustav di Svezia consegnare i premi a soli vincitori in frac e papillon: si parla, infatti, di una media di circa sette uomini l’anno (considerando che i premi possono essere dati anche a gruppi di fino a tre persone).
A ogni modo, possiamo notare dal grafico qui sopra che il numero di donne vincitrici aumenti con gli anni, sicuramente per via del contesto storico e di una maggiore presenza delle donne in campo accademico, non solo letterario, ma anche scientifico.
Sinceramente parlando, quando sentii per la prima volta parlare di questi numeri così sproporzionati pensavo che la maggior parte dei premi femminili fossero stati dati a scrittrici e letterate, forse considerando che nei primi anni nel Novecento la letteratura fosse un campo prettamente femminile.
È in realtà rincuorante notare che il numero delle vincitrici letterarie è quasi pari a quello dei premi per la Pace, simbolo di una certa coscienza e attivismo al femminile. Nel campo della pace le donne han vinto spesso, fin dalla prima edizione, salvo poi vedere un crollo che è stato poi recuperato negli anni Settanta: dopo le guerre ci si è resi conto che chi lavorava davvero per la pace non erano i capi militari, ma le donne. Il Nobel per la Pace è anche il premio più assegnato a persone provenienti da paesi in via di sviluppo e facenti parte di minoranze etniche: abbiamo vincitrici yemenite, guatemalteche, iraniane e keniote.
Tuttavia, il fatto che quattro premi su sei (contando anche quello per l’Economia, perché de facto è pari agli altri) siano prettamente scientifici ha sicuramente un peso in questo divario.
Il campo scientifico non è notoriamente un ambiente women-friendly e le cause sono molteplici. Negli Stati Uniti, per esempio, fino al 1971 vigeva una legge anti-nepotismo che vietava alle donne scienziate di lavorare negli stessi centri di ricerca o laboratori dei mariti.
La metà delle scienziate era, all’epoca, sentimentalmente legata a un collega e posta davanti alla scelta di lavorare o portare avanti un progetto famigliare. Per cercare di aggirare la questione, alcune donne accettarono di figurare come assistenti non pagate o professoresse volontarie.
La situazione europea non era più rosea, visto che per buona parte del XX secolo le donne incontrarono parecchi ostacoli sui loro percorsi accademici, nonché discriminazioni di sorta qualora avessero cercato di fare ricerche di alto livello.
C’erano meno donne alle posizioni di lavoro migliori e, di conseguenza, meno donne potevano essere nominate per un premio Nobel.
Ve lo immaginate un uomo a proporre una sua collega donna al Nobel, negli anni Cinquanta?
Nemmeno io ma sicuramente era la prassi.
A questo proposito, per favorire le nomination femminili, è stata anche fondata la Rosalind Franklin Society:
«Le donne devono essere più sicure di sé e nominarsi tra loro, e anche gli uomini devono iniziare a nominarle»
afferma la sua amministratrice Mary Ann Liebert.
Come possiamo vedere dalla tabella soprastante, premi al femminile ci sono sempre stati fin dall’edizione del 1903.
Il picco è stato raggiunto negli anni Quaranta, quando le “quote rosa” del Nobel raggiunsero l’8%. Sembrava un timido passo avanti, ma tutto crollò con la Seconda Guerra Mondiale e la successiva Guerra Fredda. In quel periodo divenne infatti importante premiare uomini forti.
Per cui, fino almeno agli anni Settanta, possiamo considerare il gender gap come risultato del contesto in cui ci si trovava.
Ma ora? Come è giustificabile?
Sven Lidin, presidente del Comitato del Nobel per la Chimica ha affermato che il numero di donne che hanno vinto il premio in questo campo è «inopportunamente basso», ma tuttavia logico: nei campi scientifici, i premi vengono spesso elargiti a progetti e idee nati trent’anni fa, se non di più, perché serve tempo per calcolarne i reali effetti a lungo termine.
Secondo Göran Hansson, segretario del comitato del Nobel per la Medicina, i dati sono positivi:
«Guardando alla statistica per il mio campo, negli ultimi trent’anni ci sono state otto vincitrici donne. Bene, ma non impressionante come numero. Se consideriamo invece gli ultimi dieci anni ce ne sono state quattro, e in proporzione è chiaro che le donne si stiano facendo sempre più strada nei campi medici e scientifici».
I premi sono quindi quasi “retroattivi” e, per giunta, non possono essere assegnati postumi: ci sono ancora tante donne che meriterebbero un premio e che non lo vedranno mai perché hanno operato in un contesto ancora troppo maschilista, o perché sono ormai in là con gli anni. È il caso, per esempio, di Vera Rubin, protagonista per anni del toto-Nobel e di un hashtag su Twitter (#NobelForVeraRubin).
Rubin è un’astrofisica che ha scoperto delle anomalie nella curva di rotazione delle galassie, fondamentali per determinare l’esistenza della materia oscura: uno dei più grandi misteri scientifici del nostro universo, un concetto che ne ha rivoluzionato la sua concezione, dando vita a nuovi campi della fisica.
Vera Rubin, alla veneranda età di ottantotto anni, non ha ancora ricevuto un riconoscimento da parte del Comitato: non possiamo sapere se negli anni sia stata effettivamente nominata e rifiutata per vari motivi, quel che è certo è che il premio non può essere assegnato postumo e il suo tempo scorre.
E Rubin non è l’unica donna che effettivamente meriterebbe un premio. Molte scienziate infatti, negli anni, hanno subito il cosiddetto Effetto Matilda, un fenomeno per il quale, specialmente in campo scientifico (ma non solo), il risultato del lavoro di una donna viene attribuito parzialmente o totalmente a un uomo. I casi sono tantissimi.
Jocelyn Bell Burnell, per esempio, scoprì le pulsar (un residuo stellare post supernova che emette un segnale luminoso intermittente a causa della sua rotazione) ma il premio fu attribuito a Martin Ryle, suo supervisore, nel 1974.
Esther Lederberg, microbiologa, scoprì il virus lambda bacteriophage, in grado di intaccare i batteri, ma il Nobel lo vinse suo marito nel 1958.
C’è poi Chen Shiung Yu, i cui studi sulla detenzione radioattiva furono importanti per lo sviluppo della bomba atomica. Nonostante sia stata una delle più influenti fisiche sperimentali del suo tempo, vide il premio svedese assegnato ai suoi compagni di ricerca.
E poi ancora Nettie Stevens, i cui studi furono cruciali per la conoscenza dei cromosomi sessuali, ma perse il Nobel a favore del marito.
Rosalind Franklin, invece, non visse abbastanza per vedere i suoi colleghi vincere il Nobel grazie alle sue prime fotografie del DNA.
E si potrebbe andare avanti ancora per un bel po’, ahimè.
Cosa si potrebbe fare per porre fine a questo grande divario tra premi “maschili” e premi “femminili”?
Non siamo più negli anni in cui le donne scienziate erano poche mosche bianche. Al giorno d’oggi sono tante e sono brave. Dobbiamo davvero aspettare i trent’anni che servono per documentare gli effetti a lungo termine di una ricerca scientifica?
Una soluzione plausibile potrebbe essere la modifica del regolamento del Premio Nobel: attribuendo un premio postumo, o dedicato alla memoria di uno scienziato, si potrebbero premiare – devolvendo il denaro alla ricerca – anche tutte quelle donne che hanno lavorato in passato in ambienti “maschilisti”. Rosalin Franklin e tante altre vittime dell’Effetto Matilda potrebbero avere un riconoscimento per il loro importante lavoro.
Oppure si potrebbero premiare ora le persone (anche le donne) che stanno facendo ricerca, dando così un incentivo economico a studi pionieristici che potrebbero rivelarsi fondamentali nel futuro anche per altri studi correlati.
Si potrebbe anche aumentare il numero massimo di vincitori di gruppo: un team di ricerca è raramente composto da sole tre persone. Generalmente vincono i supervisori, che – guarda caso – sono spesso uomini. Elargire il premio all’intero team sarebbe un beneficio per tutte le persone che hanno partecipato al progetto vincente. In questo modo le donne partecipanti non verrebbero escluse a favore dei loro superiori.
I Nobel per la Chimica, l’Economia, la Medicina e la Fisica dovrebbero premiare la scienza di oggi, così come i premi per la Letteratura e la Pace dovrebbero premiare messaggi e lotte dei nostri tempi. Tempi in cui noi donne siamo presenti e valide: meritiamo il giusto riconoscimento da questo storico e prestigioso premio, perché tante donne hanno «portato grande beneficio all’umanità».