
Milano, classe 1982. Lavora come UX Designer ed è Direttore…
Attenzione, l’articolo contiene spoiler sul film “Wonder Woman”.
È già da un po’ di settimane nelle sale cinematografiche, in America se ne parla un gran bene mentre qui da noi un po’ meno, sembrerebbe. Mi riferisco a “Wonder Woman”, il quarto lungometraggio del cosiddetto DC Extended Universe.
Ora, se avete letto il nostro precedente articolo sul personaggio capirete bene perché da queste parti ci interessi affrontare questo film. Se non l’avete letto, sappiate che stiamo parlando di una supereroina che è andata oltre il suo “semplice” essere patrimonio dell’immaginario collettivo per entrare a far parte dell’immaginario politico, assurgendo a partire dagli anni Settanta a personificazione delle lotte femministe. Per farvi capire meglio, qualche tempo fa la Nostra è diventata ambasciatrice onoraria dell’ONU per la parità di genere – almeno finché una bella raffica di ragionevoli proteste ha fatto fare dietrofront sulla questione.
Vi sarà dunque chiaro come, volente o nolente, un film su Wonder Woman esiga intrinsecamente una sua critica in chiave femminista. Ovviamente non sono il primo (anzi, forse sono l’ultimo) e la Rete già pullula di buoni articoli, ma nel mio piccolo vorrei provare a raccontarvi le sensazioni contrastanti che ho avuto guardandolo.
Prima di tutto, una rapidissima sinossi: “Wonder Woman” è un lungo flashback che racconta le origini della celebre supereroina. Cresciuta dalle amazzoni sulla fantomatica isola di Themyscira, Diana (questo per chi vivesse su Marte il nome “in borghese” della Nostra) sceglierà di lasciare coloro che l’hanno cresciuta per aiutare la razza umana in uno dei suoi periodi più bui, la Prima Guerra Mondiale.
Perché SÌ
“Wonder Woman” è un film che ha già fatto la storia della produzione cinematografica per due positivi record:
1. si tratta del primo blockbuster diretto da una donna a sbancare il box office, regista che risponde al nome di Patty Jenkins (nota a margine: fosse stato per me l’avrei affidato a Kathryn Bigelow. Anzi, glieli avrei affidati tutti, i film del DCEU. Ma quanto è brava Kathryn Bigelow? Fine della nota a margine);
2. si tratta del primo film supereroistico con una protagonista femminile a non floppare al botteghino (una cernita di atroci precedenti l’avevo già fatta qui).
Questi dati che afferiscono al “vil denaro” sono importanti fondamentalmente perché significano una cosa: “Wonder Woman” è diventato un precedente importante di cui Hollywood dovrà tener conto. Se infatti il cinema di genere aveva già dimostrato in tempi recenti di saper proporre bene delle protagoniste femminili come figure cardine di grossi franchise (penso alla splendida Furiosa di “Mad Max: Fury Road”, a “Il risveglio della forza” e “Rogue One”, comunque tutti diretti da uomini), per quanto riguarda i supereroi si è sempre rimasti parecchio indietro – sulla celluloide, perché su carta è un altro paio di maniche.
Esaurite le felici note produttive, ci addentriamo ora nella spinosa questione: ma alla fine, il film è all’altezza del personaggio e della sua valenza storico-produttiva? Per scoprirlo, leggete il punto successivo (cliffhanger).
Perché NO
Se il bel prologo sull’isola natia sembra soddisfare le aspettative, con le “amazzoni” Connie Nielsen e Robin Wright a distillare carisma e badassness, al primo malizioso scambio di battute fra la spia statunitense Steve Trevor e Diana che coinvolge le dimensioni del membro di lui hai già capito che la parte migliore del film è quella appena trascorsa.
Credo in generale di aver avuto molti problemi nel modo in cui è stato utilizzato il personaggio di Chris Pine. Mi spiego meglio: “Wonder Woman” mi è sembrato in generale un pigro Gender Swap di “Captain America: il primo Vendicatore” dove al posto dell’aitante Steve Rogers abbiamo Diana Prince e al posto dell’agente Peggy Carter c’è Steve Trevor. Letta così, il confronto sulla gestione dei ruoli a generi invertiti è impietoso. Se nel – tutt’altro che immune da critiche – film Marvel la Carter era relegata a mero elemento romance con un Cap quasi da subito consapevole dei suoi poteri, in questa pellicola il danno viene fatto al rovescio: Diana è in pratica una fessa a cui l’esausto Trevor deve spiegare tutto. TUTTO. Senza una controparte maschile, la potente Dea guerriera di Themyscira che parla tutte le lingue del mondo non è in grado di interpretare un tubo di ciò che la circonda. Voglio dire, avete notato come in questo festival di mansplaining succeda che alla fine persino il villain principale spieghi alla Nostra come sconfiggerlo?

Ok, ci sta che Diana sia disorientata poiché giunta in un mondo che non conosce, ma qui davvero le sue reazioni ricordano più una Sirenetta annacquata (giuro che uno degli sceneggiatori ha esplicitamente dichiarato di essersi ispirato al classico Disney) che una matricola al fronte. In generale, questa Wonder Woman del 2017 è ben lontana dalle consapevoli invettive contro il patriarcato che l’eroina sferza invece con una certa disinvoltura nei fumetti e semmai ne ricorda la sua ingenua versione Golden Age.
Ora, non saprei dire se si annidi del sessismo consapevole in questa gestione dei personaggi, anche perché la sceneggiatura è di grana davvero grossa e fatica più o meno sempre a trovare modi convincenti per portare avanti la storia: di conseguenza, lo spiegone di qualcuno diventa funzionale per poter procedere alla scena successiva. Rimane però forte il dubbio che in qualche stanza dei bottoni qualche timoroso produttore abbia battuto i pugni sul tavolo per dare un consistente peso alla quota maschile, come per “tranquillizzare” il pubblico più conservatore.
Perché NO BIS
Finito il fomento delle scene con le amazzoni, le figure femminili praticamente scompaiono dal film. Oltre alla protagonista infatti abbiamo:
1. l’aiutante macchietta simpatica e bruttina:

2. la cattiva che non dice né fa nulla di particolare, ma è cattiva, lo si capisce perché è sfregiata:

3. Fine.
Ok, mi direte voi, ma Diana è al fronte, come ce le metti le donne al fronte? Bene, guardatevi quel filmone di Fury, che ad esempio ci riesce in maniera potentissima.
La penso in questo senso come i critici del bel podcast Ricciotto quando dicono che si è persa un’occasione per rappresentare in maniera critica la condizione della donna nel difficile periodo storico in cui è ambientato il film, limitandosi a mettere in bocca alla sopraccitata macchietta qualche rapido riferimento alle Suffragette.
I problemi del personaggio non riguardano poi solo il modo dozzinale in cui vengono raccontate le sue emozioni, ma anche gli occhi con cui la guardano i comprimari della storia. Le battute messe saltuariamente in bocca ai commilitoni di Trevor (nemmeno gli uomini son da meno in quanto ad approssimatività psicologica) nel sottolineare le gesta dell’Amazzone mi hanno ricordato infatti un vecchio film anni ‘80, “La donna esplosiva”, in cui due nerd creano al computer una pin-up super-intelligente che viene ostentata come “la donna ideale” e sfoggiata come trofeo ai compagni di liceo. Ecco qui, la sensazione di oggettivazione è stata la stessa.
Perché COMUNQUE SÌ, DAI
Ero lì a bearmi della sagacia con cui avrei sferzato spietate critiche al film, quando durante uno gli eventi organizzati da Bossy per la lunga Pride Week milanese ho avuto modo di parlarne con due ragazze della redazione che mi hanno spiegato una cosa semplice semplice ma a cui, da maschietto che dà tutto per scontato, non ero riuscito ad arrivare. Riporto a braccio, ma il nocciolo della questione era: “noi da piccole non abbiamo mai avuto l’occasione di vedere al cinema una rappresentazione tanto potente della donna in un blockbuster”. Allora mi sono immaginato una ragazzina di oggi che va al cinema, vede la perfettamente in parte Gal Gadot che mena come una fabbra al fianco di un manipolo multietnico e multigenerazionale di donne e sì, si sorbisce una fiaba naif e rappezzata, ma che è comunque qualcosa, un inizio, una scintilla.
Per tirare le fila, “Wonder Woman” è un eterno conflitto: produttivo, fra la necessità di fare da spartiacque a un genere e quella di sostenere i costi di un tale investimento; narrativo, fra la necessità di proporre un personaggio che è una ventata di aria fresca e l’incapacità di abbandonare consolidati stereotipi; ideologico, fra il desiderio di cavalcare la bella ondata di female empowerment al cinema e il voler risultare fondamentalmente innocui e digeribili a tutti.
Per questa volta, quindi, facciamo che va bene così, perché andava tracciato il solco. Alla prossima, mi auguro che si scelga di percorrerlo con totale convinzione. E magari di fare pure un bel film, via.
Nel frattempo tu, Ripley, sta’ tranquilla, che rimani ancora la mia eroina action preferita.

Milano, classe 1982. Lavora come UX Designer ed è Direttore Tecnico della Experience Design Academy di POLI.design. Cresciuto a studi classici, fumetti supereroistici e Seattle Sound. Suona come One Boy Band.
ma non si tratta della seconda guerra mondiale?