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Primo Maggio: non chiamiamole morti bianche
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Primo Maggio: non chiamiamole morti bianche

Primo Maggio. Festa dei lavoratori e delle lavoratrici (e non del lavoro). Forse il momento migliore per interrogarci sul ruolo che svolge il lavoro nelle nostre vite e nella nostra società. Per chiederci se sia ancora ammissibile morire di lavoro – o morire per la mancanza di esso. Per fare bilanci, analizzare dati. E portare il lutto. Perché il Primo Maggio continua a essere un monito dell’importanza della sicurezza sul lavoro, un momento in cui contare le morti e constatare che non è stato fatto abbastanza per impedirle.

Nella sua rubrica Scioglilingua, sul Corriere della Sera, il linguista Giorgio De Rienzo rispondeva così a una domanda circa l’origine dell’espressione “morti bianche”:

“Morte bianca” è quella dovuta a un incidente mortale sul lavoro, causata dal mancato rispetto delle norme di sicurezza. L’uso dell’aggettivo “bianco” allude all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’incidente.

Questa definizione tradisce una contraddizione cruciale in termini, non certo imputabile a chi l’ha fornita quanto alla creazione dello stesso modo di dire. Se nessuno è responsabile di queste morti, se sono morti “immacolate” dovute unicamente a un macabro scherzo del fato avverso, perché occorre specificare che sono causate dal mancato rispetto di norme di sicurezza? E ancora, su chi deve ricadere questo mancato rispetto delle norme di sicurezza? Sui lavoratori, sui loro superiori, sullo Stato? È un modo subdolo per incolpare chi perde la vita sul posto di lavoro (“Insomma, se scegli di lavorare a trenta metri d’altezza su una gru un po’ te la vai a cercare”) o un facile inghippo linguistico per de-responsabilizzare i reali autori di queste morti laddove potrebbero esserne concausa (“Sì è vero, non c’erano sistemi di sicurezza adeguati, ma alla fine si tratta di un tragico incidente, una fatalità”)?

Per questo motivo non le chiamerò morti bianche. Le chiamerò omicidi sul lavoro.

Le morti sul lavoro dal 2018 a oggi

Il report annuale dell’INAIL ci dice che le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto nel periodo gennaio-dicembre 2019 sono state 641.638, e 1.089 le denunce di infortunio con esito mortale. Settecentottantatré morti sul lavoro, non volendo considerare anche i decessi in itinere (quelli durante il tragitto per andare o tornare dal luogo di lavoro). Una flessione di decrescita minima rispetto al 2018, dovuta principalmente, come spiega l’Istituto, al minor numero di incidenti plurimi che aveva contraddistinto con drammaticità il mese di agosto dell’anno precedente (con i due incidenti stradali in Puglia nei quali erano deceduti 16 braccianti e il crollo del Ponte Morandi di Genova che era costato la vita a 15 lavoratori). A questo va aggiunta l’eccezionalità del 2018, che si era distinto per un incremento sostanziale degli infortuni con esito mortale. Fra i casi registrati nel 2019, l’81% riguardava cittadini di nazionalità italiana, con un aumento dei morti nella fascia 20-29 e 45-54 anni e un incremento dei casi al Centro e nelle Isole.

Una fotografia desolante, specialmente se messa in relazione ai nuovi dati forniti dall’INAIL su questo primo trimestre del 2020. Perché, se da una parte è vero che esiste una contrazione evidente rispetto allo stesso periodo del 2019, dall’altra non si può fare a meno di considerare che la pandemia di Covid-19 (e la conseguente chiusura di moltissime attività lavorative nel mese di marzo) abbia giocato un ruolo decisivo in questa decrescita. Basta infatti mettere a confronto i numeri di gennaio 2019-gennaio 2020 per rendersi conto che non vi è stata alcuna diminuzione. A gennaio 52 persone hanno perso la vita durante il proprio lavoro, in confronto alle 44 dello stesso mese l’anno scorso. Una crescita superiore al 18%. Una media di 3 morti al giorno, a partire dal 2017.

La situazione europea, in linea con i dati italiani

Se si guarda alla situazione europea degli ultimi anni, il risultato appare pressoché invariato – se non più tragico. I dati più recenti di cui si è in possesso sono forniti dall’Eurostat e si riferiscono al 2017. Vengono registrati in quell’anno 3.552 infortuni con esito mortale, con una media di 1.65 ogni centomila lavoratori (per l’Italia questo dato sale a 2.1, il nostro Paese occupa una posizione di poco superiore alla metà della classifica).

I settori più colpiti dagli incidenti mortali in Europa sono il minerario, il manifatturiero e quello delle costruzioni. Come precisa lo stesso Istituto, questi dati presentano delle carenze da un punto di vista della completezza e vanno sempre rapportati ai dati assoluti dei singoli Paesi (ad esempio non contemplano gli infortuni in itinere e sono suscettibili di una serie di regole specifiche di acquisizione che abbassano notevolmente il numero reale), ma possono essere comunque un valido strumento per un’analisi generale.

Chi muore per lavoro? I settori più colpiti

Sappiamo quali sono, a livello europeo, i settori che registrano più infortuni con esito mortale sul lavoro. Ma si muore allo stesso modo per ogni lavoro? Un’inchiesta del Sole24Ore condotta nel 2018 fa emergere ciò che era molto facile prevedere: le morti sul lavoro sono orientate verso specifici settori che rappresentano la maggioranza dei casi. Questo è almeno in parte comprensibile, dato il maggior rischio a cui sono sottoposti i lavoratori in determinati ambiti, ma non basta a colmare quell’abisso che ci conferma che no, la classe operaia non va ancora in Paradiso.

Il primo settore per numero di morti è quello delle costruzioni, seguito da trasporto e magazzinaggio e dal manifatturiero; nella quasi metà dei casi, nell’incidente mortale è coinvolto un mezzo di trasporto. Per dare un’idea più chiara di questa discrepanza fra i vari settori, basti sapere che nelle costruzioni lavorano 1.3 milioni di persone, nel commercio 3.3, eppure il numero di infortuni è pressappoco identico. Il rischio maggiore appartiene poi ai lavoratori stranieri, che rappresentano il 18% dei decessi, a fronte del numero di occupati che è appena un decimo rispetto ai colleghi italiani (2.5 milioni contro i 20.5 di cittadini italiani).

Un discorso ben più approfondito meriterebbe il fenomeno del lavoro “in nero” e delle manifestazioni a esso correlate come il caporalato, laddove i dati evidenziano una verità sconcertante: l’economia non osservata (quella sommersa e quella da attività illecite) nel 2017 produceva introiti per 211 miliardi di euro, pari al 12.1% del PIL italiano. Lavoro per 3 milioni e 700.000 cittadini. Lavoro non assicurato, difficile da tracciare e quasi impossibile da tutelare. Un rischio enorme per la salute di lavoratori e lavoratrici.

Coronavirus e operatori sanitari morti sul lavoro

Un discorso a parte andrebbe affrontato per le morti sul lavoro in ambito sanitario legate al Covid-19. In questi mesi si è molto parlato del ruolo cruciale che ha avuto il personale sanitario tutto nella gestione della pandemia, cercando di restituire un riconoscimento che troppo spesso viene a mancare. Ma il continuo parlare di “angeli” ed “eroi” rischia di distrarre da una situazione drammatica: il numero delle morti legate alla mancanza di misure di sicurezza e strumenti adeguati ad affrontare l’emergenza.

Dall’inizio dell’epidemia ai primi di aprile sono stati 6.414 gli operatori sanitari contagiati dal Covid-19, a cui vanno aggiunti i contagi del resto del mese; fra questi, 150 medici, 34 infermieri, 18 OSS e 13 farmacisti sono morti (dato aggiornato al 25/04). Carenza di dispositivi di prevenzione, scarsa efficacia della comunicazione da parte delle Istituzioni (questa riguarda in particolar modo i medici di base, che hanno contato il maggior numero di vittime), carenze strutturali ospedaliere: queste alcune delle cause imputabili, escludendo ovviamente l’elevato potenziale di trasmissione del patogeno in ambito sanitario e ospedaliero. Davvero possiamo ritenere il virus come unico responsabile?

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Prospettiva storica delle morti sul lavoro, un confronto 1980-2020

Per avere una prospettiva autentica e poter meglio inquadrare il fenomeno delle morti sul lavoro, bisogna presentare un contesto temporale di riferimento. Prendiamo in analisi quindi le statistiche storiche del 1980, esattamente quarant’anni fa. In quell’anno gli infortuni con esito mortale sul luogo di lavoro sono stati superiori a 2.500. La diminuzione costante delle morti sul lavoro è un dato di fatto, ed è avvenuta ininterrottamente a partire dal 1950, con picchi e fluttuazioni ma in un trend piuttosto omogeneo.

Non c’è alcun bisogno di parlare di “numeri senza precedenti”, come avviene ciclicamente e in maniera sensazionalistica, perché è il dato in sé a destare allarme. Il fatto che ancora oggi ci siano così tanti infortuni mortali sul luogo di lavoro è un’evidenza di fallimento, ci dice che non è stato fatto abbastanza per impedirli. Che si sta sbagliando qualcosa, che la sicurezza sul luogo di lavoro dovrebbe essere una priorità assoluta, così come la salute dei lavoratori e delle lavoratrici.

La stabilità e gli aumenti degli ultimi anni sono solo un’ulteriore conferma di questa sensazione. Non abbiamo bisogno di sapere che “non ci sono mai state tante morti”, abbiamo bisogno di sapere che è stato fatto tutto il possibile per evitare queste morti. Ad oggi, questa conditio sine qua non per avere la garanzia dell’inevitabilità degli omicidi sul lavoro non sussiste.

La normalità anormale della morte legata al lavoro

Parlando quindi di “ritorno alla normalità”, come in questi giorni si usa fare, viene spontaneo chiedersi a quale normalità vogliamo ambire. Se si parla di lavoro, la normalità sono oltre settecento morti all’anno. Ci sono voluti una pandemia globale e un isolamento prolungato per dare un freno ai morti sul lavoro, e, come ci dimostrano i decessi in ambito sanitario, non sono bastati nemmeno quelli. Il sistema capitalistico sfrutta sistematicamente la manodopera umana e lo fa esigendo un tributo di vite, perché la messa in sicurezza dei luoghi del lavoro è dispendiosa e viene spesso considerata non necessaria, in quanto non direttamente coinvolta nel profitto. Qual è il valore che diamo alla vita umana e quale il valore che diamo alla produzione? Chi determina questo valore? Esiste un modo più etico di immaginare le condizioni del lavoro? Sono alcuni degli interrogativi che dovremmo porre ai nostri governanti, ai nostri industriali, ai nostri datori di lavoro.

Fino alla metà degli anni Ottanta, nelle miniere di carbone venivano impiegati i canarini da miniera; un rudimentale sistema di sicurezza basato sull’abitudine di questi volatili di trascorrere il proprio tempo cantando. Se erano presenti nell’aria metano o monossido di carbonio, a cui i canarini sono particolarmente sensibili, questi ultimi morivano per le esalazioni. Il cessare del canto del canarino nella propria gabbietta indicava il pericolo imminente di un’esplosione. Così mi figuro i dati sulle morti sul lavoro in Italia. Non si sente cantare, resta da capire se i canarini siamo noi.

In attesa di una risposta, vi auguro un buon Primo Maggio così:

Photo by daily sunny on Flickr
View Comment (1)
  • Cazzo voi femministe sottolineate SEMPRE il GENERE, in ogni tipo di fenomeno sociale.. Qui si parla di morti bianche, leggo tutto l’articolo pensando: arriverà il momento in cui cita il dato che a morire sono al 90% uomini? Maffigurati..

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