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Quando la libertà di espressione diventa populismo e aggressività
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Quando la libertà di espressione diventa populismo e aggressività

C’è un filo neanche tanto sottile che lega insieme alcuni recenti avvenimenti nel campo della comunicazione, del linguaggio, della letteratura. E non è rosso.

Quando Mattia Feltri scrive della questione “asterisco” e sul linguaggio inclusivo in un suo recente pezzo per la rubrica “Buongiorno” de La Stampa (qui una esauriente spiegazione del suo discutibile punto di vista), siamo di fronte all’ennesimo episodio di una serie molto molto vecchia: quella in cui la figura potente, che ha tanto pubblico e grande visibilità da posizioni di prestigio, con un atteggiamento a metà strada tra lo sprezzante e il vittimismo, si finge oppressa di una forza non meglio identificabile che viene raccontata, dalle sue parole, come assurda e illogica nel voler imporre i suoi argomenti, le sue evidenze, le sue riflessioni.

Si tratta dell’ennesima versione di uno degli argomenti più tossici di certo pensiero di destra: tutte le violenze sono ugualmente condannabili, quindi tutte le violenze sono uguali; è violenta l’imposizione di un pensiero da parte dell’autorità politica com’è violenta l’imposizione di un pensiero da parte di una minoranza rumorosa o da parte di una soggettività politica emergente; i campi di concentramento sono stati orrendi come le foibe, quindi il torto è da tutte e due le parti; le donne subiscono violenza ma anche gli uomini, quindi le violenze di genere sono simmetriche. L’errore ipocrita e in malafede di questa aberrazione della logica è che i fenomeni storici e sociali si possano giudicare a prescindere dalla loro origine, dalle loro concause, dalle circostanze nelle quali sono nati – quindi non importa chi o perché spara: aggressore e aggredito sono uguali quando sparano; non importa chi picchia o stupra e perché: uomini e donne sono uguali quando picchiano o stuprano; non importa chi pretendeva di eliminare gli anglismi e di usare il “voi” oppure chi usa l’asterisco e la shwa: sono fascisti entrambi perché vogliono imporre usi linguistici.

Chiunque si lamenti della “dittatura del politicamente corretto” parla e scrive come gli pare, continua a vendere i suoi libri ovunque – se ne ha scritti – o continua a parlare in radio e TV, se quello è il suo mestiere, o a scrivere e pubblicare sui social network. Senza provare neanche a ricordare da dove viene quell’espressione e perché è stata creata, almeno chi fa affermazioni del genere dovrebbe raccontare quale sarebbe la “dittatura”: quella dei femminismi, per esempio? E da quando hanno il potere di tacitare chicchessia, di sequestrare copie, di silenziare profili social? Ancora nel 2020, chi cerca, da posizioni minoritarie, di far sentire la propria voce per la prima volta come soggettività politica, è trattato come una “dittatura”. Com’è possibile oggi non capire, di fronte a polemiche assurde, dove sia il problema?

È possibile perché quando 150 scrittori e giornalisti famosi scrivono una lettera come l’ormai famigerato testo pubblicato da Harper’s Magazine – qui un ottimo commento in proposito – la loro autorità arriva molto prima dei loro argomenti. Chomsky, Rushdie, Rowling, Atwood, non possono sbagliarsi tutti e tutte insieme, giusto? Non ammettiamo che, come succede a noi, firmino qualcosa senza capire, o che altri convincano questi grandi nomi a firmare senza leggere e senza comprendere cosa stanno firmando. È la loro autorità che impedisce di pensare quanti pochi tra quei 150 starebbero a tavola con l’altro, invece di litigare; è la loro autorità che ci impedisce di credere che abbiano fatto qualcosa senza pensarci abbastanza, senza capire abbastanza; è la loro autorità che ci distoglie dall’evidenza di una assurdità: che 150 affermati professionisti della comunicazione e della letteratura stiano sottoscrivendo su una rivista letteraria famosissima e antichissima l’esistenza di un “potere” in grado di zittirli, di non farli parlare, di non fargli stampare più nulla, di impedire la circolazione delle loro parole e delle loro opere. Se sono loro ad affermare che esiste una “cancel culture” che minaccia la loro libertà d’espressione, allora non abbiamo ragione di dubitarne; anche se la stessa esistenza di questa lettera, strombazzata ovunque, testimonia che se c’è, allora questa “cancel culture” sembra molto poco efficace.

Quello di cui non si riesce a parlare sono le condizioni per cui tutti gli spazi di discussione, grandi e piccoli, si stanno intossicando di queste versioni ipocrite della “difesa della libertà d’espressione” che invece è la scusa populista e aggressiva per continuare a dire qualsiasi cosa senza avere il minimo dovere di verificare la consistenza di quanto detto, la sua fondatezza, la sua coerenza con l’esistente. Quelle condizioni, se pubblicamente discusse e accettate, avrebbero potuto impedire a 150 professionisti e artisti del linguaggio, della comunicazione e della letteratura, di difendere un loro privilegio che nessuno ha minacciato. Perché queste ipocrite difese hanno una conseguenza molto grave: insegnano un metodo.

Questo metodo è quello che poi può usare anche Mattia Feltri che può ridicolizzare e mandare segnali d’allerta per presunte imposizioni di un linguaggio inclusivo. La conseguenza più pesante, però, è quella che paga da anni chi si occupa di argomenti di genere da tanto e nelle realtà quotidiane delle scuole, delle aziende, delle associazioni, dei social network: dare a una folla di persone che di questi argomenti non sanno nulla un ottimo sistema per difendere le loro opinioni costruite sull’ignoranza attraverso un nobile principio.

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È la supposta simmetria delle violenze la base delle errate considerazioni dei Men’s Right Activist; è la diffusa ignoranza della realtà dei femminismi a permettere a tanti e tante di dichiararli inutili, vecchi, superati; è una grammatica concepita come un infantile gioco di “specchio riflesso” a far sostenere che il femminismo è fazioso, parziale, divisivo; è il privilegio acquisito in un settore specifico a permettere di dire impunemente la qualunque in un altro (come fa J.K.Rowling). E quando soggettività più preparate, spesso per esperienza personale corroborata da anni di studi, dimostrano loro che si stanno sbagliando e di tanto, allora scatta il grido di dolore della “cancel culture”, della difesa di libertà d’opinione, del nazifemminismo.

Queste figure, le grandi che pubblicano su prestigiose riviste come le piccole che parlano nei loro canali, provocano lo stesso identico danno, su scala diversa: impediscono che si formi un senso comune critico su tanti argomenti, che sia in grado di alimentare un dibattito pubblico sensato perché costruito su competenze solide e verificate sull’argomento, e non sulla fama e la visibilità dei partecipanti. In questo modo tanti ciarlatani e tante chiacchierone a vanvera non arriverebbero a migliaia di follower assumendo le dimensioni di una malattia cronica, ma al centesimo seguace sarebbero spazzate via insieme alle loro sciocchezze. E lo stesso varrebbe per le persone considerate culturalmente rilevanti e a cui associamo autorità come Rowling (le cui brutte esperienze passate o i milioni di copie vendute non le danno il diritto di discriminare le persone secondo i suoi criteri),  Chomsky (che è tanto buono e caro ma non sarebbe la prima volta che prende clamorose cantonate),  Rushdie (la cui odiosa persecuzione subita non gli conferisce perciò la capacità di riconoscerle quando non esistono), Atwood (la cui opera ispiratrice e produttrice di fantastici immaginari non la rende immune dal suo privilegio).

Perché mentre questi grandi nomi continuano tranquillamente la loro vita di alta letteratura e impegnato giornalismo, noi qui spaliamo la melma dei tanti che, dal direttore di giornale nazionale al giovanissimo chiacchierone, pensano davvero che la loro opinione sia fondata; mentre sarebbe importante che quella libertà di espressione che hanno venisse spesa in maniera più utile per tutti e tutte.

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