Sono la prima a dire che non importa cosa indossa la vittima, se una minigonna o uno scafandro da palombaro, perché la colpa è tutta di chi compie l’atto, eppure ogni volta che ripenso a quando sono stata violentata, mi vedo con i miei pantaloncini corti e la mia canottierina nera, e mi chiedo se abbia influito.
Era il primo giorno d’estate, avevo quindici anni e la giornata era iniziata come sempre: una versione di greco e una di latino, quelle che mi erano state date come compiti per le vacanze, una telefonata all’amico del cuore, un giro al parco a fumare una sigaretta.
Non vi racconterò chi come per quanto tempo, non è questa la cosa importante. Sono passati tredici anni e con il tempo mi sono resa conto che, per me, non è stato orribile tanto il fatto in sé (cioè, ovvio che sì, ma cercate di seguirmi), quanto le conseguenze della violenza. Perché alla fine il dolore fisico passa, i segni se ne vanno, ma le cicatrici dell’anima non si sono ancora rimarginate e temo non lo faranno mai.
Subito dopo aver subito quell’abuso, e per moltissimo tempo successivamente, mi sono sentita sporca, inutile, in colpa. Forse potevo fare qualcosa perché non succedesse. Forse avrei dovuto comportarmi in modo diverso. Forse avrei potuto scegliere qualcos’altro da indossare perché “non si sa mai”. Ho continuato per anni a sentirmi lurida ogni volta che vedevo qualcuno abbracciare una ragazza, io che non ero colpevole ma in qualche modo bizzarro mi sentivo tale.
Avevo la convinzione che ormai fossi una nullità, un guscio vuoto.
Ho fatto sesso con una quantità di uomini spropositata in quegli anni: ero così terrorizzata dal fatto che un mio rifiuto ad un qualsiasi approccio potesse rivelarsi fatale e farmi rivivere la violenza subita che non dicevo di no a nessuno, cercando di convincermi che tanto solo il mio corpo sarebbe stato invaso, non la mia anima. E così me ne stavo lì, rigida come un pezzo di marmo fingendo di essere partecipe. Non incolpo nessuno dei ragazzi con cui sono stata in quel periodo, non potevano di certo immaginare alcunché. Ero quella “facile”, quella che non rifiutava mai. Se avessero saputo che poi tornavo a casa e mi passavo sul corpo la spugnetta di rame che si usa per scrostare le teglie con i residui di lasagne forse si sarebbero comportati diversamente.
Di alcuni di loro mi sono anche invaghita, con alcuni sono uscita per qualche mese, ridevo, ma era evidente che non ci sarebbe stato alcun futuro, semplicemente perché ero io per prima a non vederlo. Così, dopo due anni dalla violenza, ho tentato il suicidio.
Ricordo molto bene come mi sentivo in quel periodo: cercavo di essere razionale, mi dicevo che se non ci avevo provato fino a quel momento era proprio da cretina farlo dopo un paio di anni, ma subito dopo invece mi convincevo del fatto che sì, per 24 mesi ci avevo provato, ma non c’era nulla da fare, non esistevo più. Sono qui a scrivervi, quindi è palese che il mio tentativo non sia andato a buon fine e oggi, a ventotto anni, non posso far altro che ringraziare l’Altissimo o chi per esso per avermi fatto dosare malissimo le gocce che speravo mi avrebbero ammazzata.
Mi sono sempre concentrata molto sulla scuola e sullo studio: tutti quegli argomenti certi e incontrovertibili, la fatica di cercare sul dizionario una parola incomprensibile, tutto questo mi teneva occupati corpo e mente.
A diciotto anni ho conosciuto una ragazza, amica di amici, e abbiamo iniziato a frequentarci, prima solo per chiacchierare e sbevazzare, poi siamo diventate una coppia. Credo che, in buonissima sostanza, il fatto che non avesse un pene mi rassicurasse, perché giammai avrebbe potuto farmi quello che mi aveva fatto lui. Ovviamente non la riducevo solamente ad un agglomerato di attributi fisici, anzi, credevo di essere proprio innamorata. Penso che non riuscirò mai a ringraziare abbastanza questa persona per essere stata così paziente e comprensiva nei miei confronti, anche quando le ho detto che con lei stavo bene, ma dovevo provare a rimettere in carreggiata la mia vita parecchio scombussolata. Quell’anno avevo gli esami di maturità, volevo concentrarmi su quelli, volevo provare ad uscire con i ragazzi per capire che effetto mi avrebbe fatto. Lei ha capito e accettato tutto.
Non ho sporto denuncia, non ne ho mai avuto il coraggio.
Questa in effetti è una cosa strana, perché sono sempre stata dell’idea, anche ai tempi, che una violenza, una molestia, un comportamento inappropriato debbano essere denunciati. Invece io per prima non ce l’ho fatta, principalmente perché, come ho già detto, mi sentivo in colpa. In qualche modo sentivo di non essere del tutto innocente, di non essere solo la vittima. Anche questa è una cosa parecchio assurda, perché razionalmente è proprio fuori da ogni dubbio che la colpa sia solamente di chi commette la violenza, ma a livello inconscio, ogni volta che nella mia testa consideravo la possibilità di denunciare, ero terrorizzata. Avevo paura che nessuno mi avrebbe creduto, che mi avrebbero chiesto cosa avessi fatto io per provocare l’altra persona. Erano più che sufficienti i miei sensi di colpa, non avevo bisogno di altre accuse.
Con il senno di poi, per come sono cambiata e maturata negli anni, riconosco il mio errore: è stata un’idiozia non denunciare l’accaduto. Quindi, per favore, se mai dovesse capitarvi questa tragedia, fatelo, denunciate subito; non aspettate, perché oltretutto questi sono reati che cadono in prescrizione velocemente e una volta scomparse le “prove fisiche” non si può più fare nulla. Fatelo, se non volete rischiare di incontrare la persona che vi ha stuprate mentre siete in coda dal tabaccaio per prendere le sigarette come è successo a me.
Nel corso degli anni ho imparato a convivere con ciò che mi è successo: non lo vivo bene, non lo vivo eccessivamente male, ci convivo e basta. Certo, se mi metto proprio a ripensarci mi sento le ossa che si frantumano e il cervello che va in tilt, ma in generale mi sono abituata al fatto che sì, sono stata vittima di una violenza sessuale e questo non fa di me una persona migliore o peggiore di tante altre.
C’è un cosa, però, che davvero non sopporto e mi manda in bestia: quando sento qualcuno dire, scherzando, frasi tipo “che bella, la violenterei” o “che capelli arruffati oggi, sembra che ti abbiano violentata”. Ragazzi, non fa ridere. Ogni volta cerco di pensare che chi pronuncia frasi del genere non si rende conto di ciò che sta dicendo e cerco di non risultare pesante iniziando una filippica su cosa sarebbe bene dire o tacere, ma giuro che non riesco a stare zitta, è più forte di me. Già che ci sono lo ribadisco anche qui: non si sa mai veramente cosa abbiano passato le persone che vi circondano, cosa pensino e come vivano, quindi per favore cercate di essere sempre rispettosi, anche nel parlare e non solo nei fatti. Perché certo che verba volant, ma se un verbum del genere volat addosso a me ci metto qualcosa come un paio di giorni per riprendermi: mi saltano addosso tutti i ricordi atroci e, ecco, non è bello.
Capiamoci, non è mica semplice stare vicino ad una persona che abbia subito una violenza, faccio fatica anche io che ci sono passata, posso immaginare la difficoltà di chi vede tutto da fuori. Perché poi, se ho capito bene qualcosa in questi anni, non è come l’influenza che più o meno è uguale per tutti e la cura è sempre la stessa; no, ogni persona può reagire in maniera differente ad un abuso sessuale. C’è chi rinuncia alla propria fisicità al punto da fregarsene e lasciar fare agli altri come ho fatto io, c’è chi denuncia e si batte, c’è chi sceglie di stare in silenzio, c’è chi vuole ammazzarsi e chi non vede l’ora di ricominciare a vivere. Ciò che è davvero importantissimo da capire è che ognuna di queste scelte deve essere rispettata, certo si può incoraggiare e tutto quanto, ma mai giudicare o dire “io al tuo posto farei così”, perché il mio posto non lo auguro a nessuno.
Ora, quando ci penso, mi sembrano passati un milione di anni (e in effetti sì, da quindici a ventotto non sono pochi), ma credo che quello che è successo me lo porterò dietro per tutta la vita, in tutti i particolari.
Il mio compagno è al corrente di tutto, ovviamente non ne parliamo a tavola mentre mangiamo, non è un argomento di conversazione, ma so che se ho bisogno di sfogarmi o di piangere o di imprecare lui c’è, senza che gli debba spiegare nulla.
Non è stato facile e a volte non lo è tuttora, ma ho imparato prima a sopravvivere e poi a vivere di nuovo.