Articolo di Nicola Brajato
Cuore palpitante. Pupille dilatate. Un istinto viscerale di afferrare i primi vestiti, sbattere la porta e correre in mezzo alla strada, tra le macchine in corsa. Sorridere a tutti improvvisando mosse improbabili con la musica a palla nelle orecchie. Mi vedo già a ballare in mutande e cappotto oversize, nella giungla urbana di clacson impazziti e semafori lampeggianti. Effetti di qualche sostanza stupefacente penserete voi. Purtroppo non ho nulla da consigliarvi se non un nome: Charles Jeffrey.
Non mi capita spesso di avere un’infatuazione tale per un fashion designer. Solitamente sono diffidente, aspetto, scruto le varie collezioni e cerco di individuare il filo conduttore della sua produzione. Insomma, non scendo in mutande per strada (metaforicamente parlando) dopo la prima sfilata. Ma con Charles è stato diverso. Dal primo momento è esplosa nella mia mente una galassia immaginifica, allucinogena, anarchica. Il suo è un mondo sciolto da qualsiasi vincolo con la “normalità”, caratterizzato da un’estetica esperenziale.
Nonostante lo stile sembri già affermare una maturità stilistica, scopriamo invece che il giovanissimo designer fa parte della classe 1990. Di origine scozzese, sceglie Londra come base per i suoi studi. Laureato al BA in Fashion Design alla Central Saint Martin nel 2013, seguito dal MA in Menswear, lo troviamo già come protagonista delle ultime sfilate della London Collections Men AW 16 (ne avevamo già parlato in questo articolo). Fondatore di LOVERBOY, una delle serate più in voga nella scena gender-queer londinese, decide di portare il suo habitat da midnight memories nella sua prima collezione spring/summer 2016. Sulle note di Vogue di Madonna vediamo aprirsi uno show che si sviluppa su un dancefloor dove gli abiti danzanti riportano l’atmosfera liberatoria delle serate di Jeffrey.
Si respira un’aria sovversiva che fa il verso alla binarietà eteronormativa. Non esistono regole o dress code. Essere ciò che si vuole, aldilà di aspettative culturali, è l’unica prerogativa del LOVERBOY. E l’abbigliamento gioca un ruolo fondamentale in questa visione rivoluzionaria. Infatti proprio il designer ad un’intervista al magazine Dazed racconta “Dressing up is extremely important. I hope it challenges the traditional path that designers have to take, and their roles as arbiters of fashion.” E chi meglio di lui, che lo sta letteralmente affrontando con un’ironia tagliente e canzonatoria. La moda di Charles Jeffrey è totalmente queer. La decostruzione sapiente delle proporzioni lancia il guanto di sfida all’imposizione di una moda “giusta”, “naturale”, “corretta”, criterio che sta alla base dell’imposizione di un’identità con un determinato tipo di estetica, classificabile con l’etichetta “normale”, “canonica” (e aggiungerei spesso “monotona”,”ripetitiva” e “noiosa”).
Cappotti over mono e doppiopetto che nella loro serietà simbolica si colorano di verde, rosso e blu. Cinture annodate riprendono top lacerati e pantaloni dalle forme morbide e liberatorie. Ma sembra essere uno l’elemento che caratterizza questa prima collezione: il colore. Oltre ad un’accezione sicuramente stilistica, che passa attraverso gli abiti e il make-up, il colore di Charles Jeffrey è materico. I suo pantaloni diventano infatti una tela sulla quale sfogare un estro creativo, quasi a diventare un Pollock. Ma il dripping dello stilista londinese non è formale, distaccato, anafettivo. Al contrario. Il processo di tintura dei jeans va ad improvvisare una gestualità in stile Household, performance dell’artista Allan Kaprow (1964), una situazione che difficilmente potremmo incontrare nella vita di tutti i giorni: tra urla e gesti no-sense in uno scenario trash, dei ragazzi si divertono a leccare marmellata alla fragola e mangiare fette di pan carré spalmate sulla carrozzeria metallica di un’auto. Un rapporto erotico tra colore e persone che emerge in Charles Jeffrey con un’interpretazione quasi Dolaniana del dripping. Sembra infatti di essere in una delle scene più travolgenti del primo film del regista canadese Xavier Dolan, J’ai tué ma mére, quando Hubert e Antonin, tra sguardi, abbracci, e tintura gocciolante, si lasciano trasportare dalla passione che li lega, unico rimedio ad una vita che rimane sospesa tra l’angoscia e la necessità di essere desiderati.
La sensualità tattile del colore di Charles Jeffrey ritorna, insieme ad una continua decontestualizzazione, nella collezione autumn/winter 16. Insieme a Rory Parnell-Mooney e Grace Wales Bonner, lo troviamo protagonista nella sfilata MAN, organizzata da Fashion East London. Un’installazione artistica fa da séparé tra una gang di club kids del XXI secolo. Creature della notte sovvertono con superba disinvoltura l’ABC dell’etichetta borghese. Così, tra camminate decise e alcune un po’ più incerte, i discepoli di Jeffrey portano in passerella orecchie sanguinanti con keyrings, occhiali da vista che, messi sopra a frangette spettinate, hanno ben poco da far vedere. Cinture di pelle immobilizzano parti del corpo che insieme a multiforme o-collar, mettono in scena un’interpretazione easy casual del bondage.
Quello tra lunghezze e proporzioni sembra essere un dialogo senza pace, litigioso e sovraccarico. Un qui pro quo che si risolve in dettagli attraenti: abbottonature sciatte e scomposte, molto lontane dal doppiopetto inamidato del borghesuccio benpensante, maxi revers e colletti irrispettosi, maglioni cropped con l’etichetta sul davanti, rossetti sbavati e gonne che sottolineano l’antinomia tra le gambe emaciate e le aitanti spalle enfatizzate da volumi over.
Una persona. Una rivoluzione. Questo è lo stile di Charles Jeffrey. Un Freigeist in grado di destabilizzare, anche solo per pochi minuti, la nostra percezione ottusa e addomesticata in materia di abbigliamento. Questo giovane designer ci apre le porte di un altro mondo possibile, un mondo che a primo impatto può incutere timore. Ma se ci pensiamo bene, questa non può che essere una dimensione inclusiva, priva di qualsiasi ridondante costruzione culturale. Decostruendo l’estetica del “normale”, il nostro enfant terrible decostruisce anche le identità che ne derivano. Cos’è dunque il “bello” adesso? Un’insieme di caratteristiche che vanno a definire l’individuo “giusto” o il mostruoso incanto del poter essere ciò che più si desidera?
Un quesito che dovrebbe farci riflettere su come (forse) troppo spesso costruiamo il nostro apparire in relazione all’altro, un’estetica contaminata dalla paura del giudizio altrui. Ma non c’è nulla di più triste della negazione della propria essenza.
È giunto il momento. Googolate Charles Jeffrey, mettetevi le cuffie, aprite la porta e lasciatevi trasportare in un mondo dove l’unica regola che vige è la libertà, di essere, indistintamente.