Articolo di Benedetta Geddo
Come tutti, non ho ricordi chiarissimi degli anni prima delle scuole elementari. Personalmente, mi piace pensare che sia perché quando avevo sei anni è nato mio fratello, e da allora mi ricordo tutto perché c’è anche lui nei miei ricordi: non sarà scientificamente accurato ma è un bel pensiero. I miei ricordi dell’asilo e degli anni prima ancora sono lampi, scene singole immobili come quadri: io che vedo per la prima volta La Bella Addormentata nel Bosco e rimango impietrita dall’apparizione di Malefica, per esempio, talmente tanto che ancora adesso quella musica mi fa scendere un brividino lungo la spina dorsale; mio nonno che mi fa sedere sulle sue ginocchia, mette nella mia mano una penna e la sua mano sopra la mia e mi insegna a scrivere il mio nome; quando il gatto dei vicini di casa mi ha artigliato tutta una gamba (sorprendentemente, adesso sono una gattara convinta e sono i cani a mettermi un po’ a disagio, vai a sapere); quando mia nonna mi ha detto: “Saresti così carina, Benedetta, se solo fossi un po’ più magra”.

Quest’ultimo momento, ecco, questo me lo ricordo bene. Mi ricordo che mi stavo togliendo il cappotto per mettere il grembiulino dell’asilo (mi ricordo anche che di grembiulini ne avevo tre e quel giorno stavo indossando quello verde). Mi ricordo le scene di Cappuccetto Rosso che erano dipinte sui muri della “sala degli armadietti”, che aveva un pavimento liscio e perfetto per farci le scivolate sulle ginocchia — passatempo preferito di tutti i bambini di entrambe le classi del mio asilo di paese, soprattutto perché le maestre non volevano. Mi ricordo che ero al terzo e ultimo anno, perché ero tutta fiera di far parte dei “grandi” e di non dover più fare il pisolino di pomeriggio (bei tempi quelli, oggi dormirei una media di ventisette ore al giorno se potessi). Mi ricordo quanto mi lasciò stranita quella frase, perché a cinque anni non è che stessi tanto a pensare al mio essere carina o meno, ero concentrata su altro — Babbo Natale mi avrebbe portato il set di Lego che avevo chiesto? Avremmo mangiato la pizza quella settimana? Avrei potuto vedere Sailor Moon quel pomeriggio o mia mamma sarebbe partita nella sua solita filippica contro i “cartoni giapponesi che sono violenti e non mi piace che li guardi”?
Sul momento non ci diedi tanto peso. Scossi le spalle e me ne andai a giocare. Ma ricordo molto bene che quando quell’estate ci fu la festa di fine anno e di “addio” per i bambini che andavano alle elementari, mi sentii a disagio tutto il giorno nel costumino a due pezzi che mia mamma mi aveva comprato. Penso che quell’estate lì sia stata la prima in cui ho preso coscienza che le mie braccia e le mie gambe e la mia pancia erano diverse da quelle delle mie compagne, ed è cominciato tutto da quel “Saresti così carina se solo fossi un po’ più magra”. La frase che mi ha tormentata per tutta la vita.
Ora, potrei cominciare a sciorinare tutta una serie di fatti e motivazioni per le mie braccia ondeggianti e le mie cosce che si toccano e la mia pancia — tipo il fatto che ce l’abbiamo nel DNA la tiroide che non fa il suo lavoro (ironicamente, viene proprio dal lato della famiglia della nonna e ne soffrono sia lei che mio papà che io). Potrei dire che vado in palestra tre volte la settimana e che ho fatto sport a livello agonistico per otto anni prima di smettere per dedicarmi alla scuola. Potrei dire che in realtà non mangio schifezze varie se non alle feste e sono la fan numero uno dei broccoli, e che persino quando stavo all’estero giravo tre o quattro supermercati per poter trovare della verdura decente che non fossero patatine fritte. Potrei dirlo e ripeterlo fino allo sfinimento ma non servirebbe a niente. Quando entro in una stanza, quando le persone mi guardano e si rendono conto di che forma ha il mio corpo, la maggior parte si è già fatta un’idea di me, del mio stile di vita, dei contenuti della mia cartella clinica: mi vedono piazzata sul divano, mi vedono svuotare la dispensa, mi vedono incapace di fare un addominale senza stramazzare al suolo. Vedono le mie analisi del sangue e sanno che sono un disastro, perché come altro potrebbero essere vedendo in che stato è il tuo corpo? Mi è già successo di ricevere occhiate stupite quando dico che in realtà il mio sangue sta benone e lo dono regolarmente da quando sono diventata maggiorenne.
Le persone danno per scontato, sanno già tutto, si fanno un’idea di te nei primi dieci secondi e poi è dura come il ferro fargliela cambiare. Adesso ho imparato un po’ di benedetto menefreghismo, ma quando ero più piccola lottavo con le unghie e con i denti per giustificarmi, per far capire loro che c’era un motivo per cui ero e sono così, che non ero “pigra”. Perché alla fine il pensiero comune è che se sei grasso sei pigro, non ci possono essere altri motivi. Se sei grasso e resti grasso è perché non ti impegni, perché non fai le diete, perché non ti muovi. E quindi è colpa tua e quindi non ti meriti niente.

La mia adolescenza è passata all’insegna di questo modo di pensare. Ci sono pochissime foto di me tra i tredici e i diciassette anni, talmente odiavo l’immagine che lo specchio a figura intera mi restituiva. Quando ho dovuto mettere l’apparecchio a quindici anni, l’ho presa malissimo. “Mamma, già sono terribile così, già sono un mostro così, non posso sopravvivere anche all’apparecchio”, le dicevo. Ho sempre odiato mettermi in costume da bagno, praticamente da quando avevo cinque anni in avanti, e ho sempre odiato le vacanze al mare con gli amici. Non ho mai parlato apertamente di cibo, mai detto “Ah, ho proprio voglia di un piatto di carbonara o dell’arrosto della nonna o di quella pizza che abbiamo mangiato in quel posto o di quella paella che abbiamo assaggiato a Maiorca”. Mica potevo far sapere alla gente che mi piaceva il cibo, sarebbe stata come un’ammissione di colpevolezza. Mi sono sempre sentita a disagio a mangiare in pubblico, perché – di nuovo – era un’altra prova schiacciante della mia grassezza. Mi ricordo di una delle gite degli ultimi anni del liceo in cui io mangiavo a piccoli bocconi, quasi nascosta, invidiando con un’intensità bruciante le mie compagne che invece urlavano ai quattro venti quanto amassero mangiare, quanto mangiare fosse davvero una delle grandi gioie della vita, e si alzavano a riempirsi il piatto dal buffet ancora e ancora. “Ma dove lo mettete?” pensavo, disperata. Io facevo diete da fame e non perdevo neanche un etto.
Le diete da fame sono ovviamente un altro grande classico del pacchetto “adolescenza da ragazza grassa standard”. Sempre perché se non fai niente per abbattere la tua grassezza allora è colpa tua. Mangiavo pochissimo quando c’erano i miei a casa e invece proprio niente quando ero da sola, e piangevo e piangevo quando i numeri sulla bilancia restavano gli stessi e l’immagine nello specchio non cambiava. E quindi facevo di tutto per “compensare” il mio aspetto. Andavo bene a scuola, leggevo tanto, mi appassionavo di film e cose “da grandi”, facevo volontariato alla biblioteca del paese, aiutavo in casa — mi piaceva fare tutte queste cose, certo, ma una parte di me diceva sempre, “ecco, sarò anche grassa ma…”. Sarò anche grassa ma guarda questo 10 in inglese. Sarò anche grassa ma guarda tutti i libri che ho letto questo mese. Sarò anche grassa ma sono una brava figlia. Sarò anche grassa ma almeno ho valore in tutte queste altre cose, almeno non sono uno spreco del tanto spazio che occupo, almeno c’è un motivo per cui sono qui.

E lo so che sembra brutto letto così, sembra tragico, forse sembra eccessivo. Ma la mia testa lavorava così, e per certi versi ancora lavora così. Perché, pensateci: alle persone grasse si può dire di tutto, no? Non è cattiveria, è onesto e sincero desiderio di aiutare. “Lo dico per il tuo bene”, “guarda che lo faccio per te”, “fidati che poi mi ringrazierai”. Moltissime persone nella mia vita l’hanno pensata così: mia nonna prima di tutti, che ha continuato a martellarmi sulle diete e il movimento e la mia mancata bellezza e poi adesso si chiede perché non ami passare del tempo con lei e io sia sempre sulla difensiva quando siamo nella stessa stanza. I miei genitori, che poi hanno disimparato quando io stessa ho disimparato alcune cose. I miei amici. Persino la mia ginecologa, giusto qualche settimana fa. Mi dice che le mie analisi sono effettivamente a posto – carramba che sorpresa – e poi mi dice anche, ridacchiando, che non riesce a far alzare il lettino se ci sono seduta sopra perché peso troppo. Che divertente. Sono sicura che dopo una battuta così da parte di una persona che dovrebbe avere a cuore la mia salute e con la quale sono molto vulnerabile ed esposta (insomma, letteralmente) la mia vita cambierà da così a così come una Gocciola.
Non sto dicendo che bisogna stare zitti. Non sto dicendo che proprio non si possa toccare l’argomento dimagrimento, soprattutto quando la salute ne risente o viene messa davvero a rischio e qui si potrebbe aprire tutto il discorso che la body positivity non è automaticamente promozione dell’obesità: la salute prima di tutto, ma se una persona è medicalmente a posto ed è in carne, dove sta il problema? Credo che un minimo di decenza e delicatezza comunque siano sempre necessarie: che cos’ha di costruttivo una battuta cattiva? E una presa in giro? Proprio un bel niente. E ci sono delle parole che ci portiamo dentro per sempre, che restano con noi anche quando le persone che le hanno dette se ne sono dimenticate ormai da un bel po’.

Io, per esempio, oggi ho ventiquattro anni. Non mi dispiace comparire nelle foto e ogni tanto me le faccio pure da sola. Occasionalmente le pubblico addirittura sui social e poi non mi viene il ribrezzo a pensarci. Parlo di cibo, soprattutto quando mi manca qualche piatto particolare che non assaggio da tempo, e non ho più troppi problemi a mangiare in pubblico. Continuo a non amare particolarmente mettermi il costume, ma ho risolto il problema scegliendo i modelli a vita alta. Vado in palestra e mi sento bene, metto dei vestiti un po’ scollati quando esco, amo i jeans a vita alta e ogni tanto lascio anche che si veda una finestra di stomaco, una linea di pelle non troppo grande tra i pantaloni e la maglia. Però penso ancora che tutto quello che ho fatto e faccio sia una compensazione. A sedici anni era il dieci in inglese (o il sette in greco, insomma, dipendeva dalle situazioni), a ventiquattro è il mio voto di magistrale. A sedici anni era aiutare in casa, a ventiquattro è aver vissuto da sola all’estero senza tragedie o disastri epocali. Quando mi guardo allo specchio, sento ancora la voce dei miei compagni che mi prendono in giro. Sento ancora il ragazzino per cui avevo una cotta alle medie dire: “Sì ma le tette non contano se sei grassa”. Quando mi guardo allo specchio e vedo i miei fianchi larghi e le mie cosce che non hanno mai accennato a diminuire e le mie braccia che continuano a essere ondeggianti, ogni tanto magari riesco pure a considerarmi “carina”. Ma non mi sono mai considerata “bella”.
Ho disimparato tante cose e ne ho imparate molte altre sulla body positivity. Venero Ashley Graham come se fosse la mia personale dea Afrodite. Vorrei che tutti si sentissero bene con il proprio corpo e credessero di essere bellissimi, perché lo sono. Ma l’eccezione a tutto sono io: con me stessa continuo a essere cattiva e spietata come lo ero a quattordici anni, anche se in certi periodi mi addolcisco e mi voglio bene, a me e a questo corpo che mi tiene in vita. Ho fatto tanta strada, perché la me di sedici anni mai si sarebbe immaginata di poter pensare queste cose, di potersi mettere dei pantaloni che lasciano un po’ di pancia di fuori, di farsi i selfie e metterli su Instagram. Ma ne ho ancora tanta da fare, perché quando penso a cosa significhi l’aggettivo “bello”, non penso mai a me. I due concetti sono come pianeti distanti anni luce l’uno dall’altro per me. È impossibile che io sia bella — al massimo sono accettabile, carina, non mostruosa, ma mai bella. E ancora oggi continuo a essere costantemente all’erta per quello che fa il mio corpo: come sono seduta, in che posizione sono le mie braccia, come appaio dall’esterno. Esercito un controllo rigidissimo su tutte le mie membra, perché ancora adesso penso di non potermi permettere di abbassare la guardia e lasciare che qualcuno veda un lato “non curato” di me.

E mi chiedo quanto di questo modo di pensare e di essere sia “nativo”, mio, e quanto invece derivi da tutte le parole che mi hanno detto da quando avevo sei anni a questa parte, tutti gli sguardi cattivi che ho ricevuto e tutti quelli amorevoli che non ho ricevuto. Sarei così rigida nel controllare i miei movimenti? Penserei “sarò anche grassa ma almeno ho preso 107 come voto di laurea”? Magari non mi nasconderei, magari andrei al mare senza pensieri. Magari quel lato della mia personalità rumoroso e sfrontato e deciso uscirebbe più spesso invece di essere riservato alle persone con cui sono davvero e completamente a mio agio. Magari esprimerei le mie opinioni a voce più alta senza avere una costante paura di essere giudicata, magari me ne fregherei di più di quello che pensano gli altri, magari mi sentirei all’altezza, magari magari magari.
Non lo posso sapere, perché io sono questa persona qui. Quello che posso fare è non piangermi addosso (non troppo, insomma, siamo pur sempre umani) e cercare di migliorarmi sempre, cercare di amare ogni giorno un pochino di più quello che vedo allo specchio. E questa è una delle due ragioni che mi hanno spinta a scrivere questo articolo: voglio dire che la body positivity è bellissima, ma facile sulla carta e difficile da morire nella vita vera. Non ci si sveglia un giorno pensando “bon, da oggi niente più odio verso il mio corpo, s’impicchino gli anni di prese in giro e traumi che mi porto sulle spalle, tutto è bello e splendente e pieno di unicorni”. Non è né una strada pianeggiante né una salita, che sarà dura, va bene, ma almeno è dritta. Io l’ho trovata e la trovo ancora più come le montagne russe, piena di alti e bassi in cui un giorno pensi “mamma mia, Ashley Graham sarebbe proprio fiera di me” e quello dopo non vuoi mostrare nemmeno la punta delle dita al resto del mondo.
Io non sono nessuno per dare consigli o dispensare pillole di saggezza, ma credo che chiunque si trovi al momento sulla strada dell’amore e accettazione di sé debba darsi tempo, provare e riprovare, arrivare fino a un certo punto e poi vedersi cadere e ricostruire su tutto da capo. E se si pensa ce ne sia bisogno, chiedere aiuto professionale: non è niente di cui vergognarsi ma anzi, a volte è davvero salvavita e parlo per esperienza personale. Uno dei consigli che mi ha dato mia madre l’anno scorso, quando anche lei come me ha disimparato tante cose che la nostra società prende invece come verità innegabili, è stato: “Sii gentile con te stessa”. Io ci provo ogni giorno e ogni tanto funziona e ogni tanto no, ma io continuo a provarci, perché, come canta uno dei miei gruppi preferiti, “sono io la persona che dovrei amare in questo mondo, la me brillante, la mia anima preziosa, non perfetta ma così bella, sono io la persona che dovrei amare”.

La seconda cosa che vorrei dire è di non assumere. Non dare per scontato mai. Non pretendere di sapere come vivono gli altri, che scelte facciano, cosa mangino, cosa sia scritto nella loro cartella clinica. Non dispensare sentenze a destra e a manca perché “sto solo dicendo la verità, lo faccio per te, fidati che ti farà bene”. Fermarsi un attimo e pensare alle parole che ci escono dalla bocca, perché a volte fanno male. E rendersi conto che non si è mai depositari della verità assoluta, soprattutto quando si parla di altre persone. Sii gentile con te stessa, sì. Ma sii gentile anche con gli altri, e forse in futuro avremo meno bambine (e bambini, e persone) che abbiano come primo ricordo qualcuno che dice loro “staresti così bene se solo fossi più magra”.
Cara Benedetta,
ho letto il tuo articolo tutto d’un fiato e ne ho apprezzato ogni aspetto, ma più di ogni cosa ho adorato la tua trasparenza e sincerità. Ho sofferto di un disturbo dell’alimentazione qualche anno fa ed è stato grazie alla scoperta del movimento della Body Positivity (soprattutto attraverso il libro ‘The Body Positive Power’) che ho mosso i primi concreti passi verso la guarigione.
Essere Body Positive mi aiuta non soltanto ad avere un rapporto migliore con me stessa, ma anche con qualsiasi altra persona. Sono in grado di riconoscere bellezza laddove non ne avevo mai notata e a vivere con maggiore serenità ed entusiasmo.
Di Body Positivity si dovrebbe parlare di più e tu hai contribuito a farlo!
Se la body positive vuol dire che tutti sono belli è sbagliata, giusto combattere bullismo e offese perchè ognuno di noi va risopettato ma a prescindere dal fatto di essere bello perchè tutti belli non siamo, qualcuno lo è e qualcun’altro no! Non è uno stereotipo imposto è la realtà della vita. non è vero che siamo tutti belli fisicamente e farlo credere è sbagliato. ci sono uomini che hanno vinto la lotteria genetica e hanno un viso bello e un corpo bello e uomini che non ce l’hanno o non ce l’hanno più, stesso discorso per le donne. I corpi obesi o scheletrici non sono nè belli nè sani (le analisi del sangue perfette a 24 anni non dimostrano nulla, il lieve sovrappeso è una cosa, l’obesità è un danno oggettivo per la salute non solo estetico e vale anche per i maschi) , chi ha questi corpi non va offeso (rifiutare sessualmente qualcuno il cui corpo non ci attrae non è una offesa) ma se tutti accettassimo con serenità che esistono uomini e donne (snelli o formosi armoniosi) fisicamente più belli e attraenti di altri ci sarebbero meno insicurezze. io so che ci sono uomini più belli di me e lo accetto..
Grazie per l’articolo.
Grazie, davvero.