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Sex work: il modello svedese tra ideologia e realtà

Sex work: il modello svedese tra ideologia e realtà

Articolo di Lara Conte

La pandemia da Covid-19 ha causato una profonda crisi economica e sociale. In particolare, ha portato alla ribalta problematiche preesistenti, alcune delle quali passate in secondo piano nell’agenda politica prima che l’emergenza sanitaria mondiale ne aggravasse la situazione. È questo il caso del lavoro sessuale, categoria che, con l’entrata in vigore della Legge Merlin nel 1958, è diventata attività lecita ma non legale, mancando di conseguenza di riconoscimento istituzionale e tutele. Periodicamente ci si è ricordati dell’esistenza del sex work all’interno della logica dei dibattiti elettorali di piazza, polarizzati da un lato nella richiesta delle destre di riaprire le “Case chiuse”, che riporterebbe l’Italia al “regolamentarismo classico” della prostituzione, già fallito una volta per una gestione statale del settore caratterizzata da sfruttamento e violazione dei diritti umani delle lavoratrici; dall’altro nell’impegno della sinistra nel combattere la tratta e lo sfruttamento sessuale, rimanendo però incapace di riconoscere il sex work e inscriverlo nell’universo giuridico del lavoro.

A causa di questa mancanza di volontà politica e legislativa, durante il lockdown le già precarie condizioni di chi fa lavoro sessuale in Italia si sono ulteriormente aggravate. Una situazione a cui ha cercato di rispondere il crowdfunding “Nessuna da sola!” lanciato da CDCP e il collettivo OmbreRosse insieme alla rete Uds italiana, per fornire sostegno economico a chi versava in grave stato di necessità. A ben vedere, il lancio della raccolta fondi è stata un’occasione molto importante per il movimento sexworking italiano: il grande sostegno e la visibilità mediatica ricevuti hanno fornito alle/ai sexworker e alleat* nuovi strumenti per far sentire la propria voce e rivendicare i propri diritti, uscendo fuori dall’unica rappresentazione istituzionale lasciata loro, ovvero quella delle vittime.

Questo ha riattivato il dibattito pubblico sul tema, portandolo a nuovi livelli. Infatti, poche settimane dopo l’avvio del crowdfunding, la risposta di una parte del femminismo neoabolizionista non si è fatta attendere. La loro tesi, raccolta nella Lettera al Governo firmata dalla Rete neo-abolizionista italiana sostiene che:

“L’epidemia è una occasione unica per dimostrare come questa fetta di ‘produttività’ non è salvabile e non può essere protetta con mascherine e guanti. Il Covid-19 è una occasione irripetibile per mostrare come sia aleatoria la posizione di chi asserisce che la prostituzione è un lavoro […] perché la prostituzione, comunque la si chiami, è per antonomasia e nella pratica l’attività più pericolosa per le donne[…].”

Nella Lettera si asserisce che la richiesta di aiuto delle sex worker durante la pandemia vada accolta come “emergenza nella emergenza”, cioè riconoscendo che la prostituzione in sé sia il vero problema da cui “salvare” le donne. Per fare ciò, una delle richieste inviate al Governo è quella di adottare il modello nordico di criminalizzazione del cliente nella fase di ricostruzione della post pandemia.

Ma che cos’è esattamente il modello nordico e che effetti ha avuto nei Paesi in cui è stato adottato? Il Sex Purchase Act è stato formulato per la prima volta in Svezia nel 1999 all’interno del pacchetto “Violence Against Women Act” – o anche “Kvinnofrid”: “Pace per le donne” – una normativa che comprendeva disposizioni contro la molestia sessuale e lo stupro. Lo scopo era di arrivare a una abolizione della prostituzione, in quanto espressamente qualificata come grave violazione dell’integrità della donna, attraverso una strategia punitiva che depenalizza l’offerta di servizi sessuali, colpisce la domanda (da una multa fino alla reclusione di un massimo di sei mesi) e prevede programmi di fuoriuscita dal lavoro sessuale (counseling, orientamento al lavoro e sostegni pubblici).

La decisione di criminalizzare il cliente sulla base di un’argomentazione femminista fu una novità assoluta nel panorama normativo europeo in materia. L’idea di base è che l’unico modo di fermare il mercato del sesso sia punire la domanda senza criminalizzare le donne prostitute poiché agiscono costrette all’interno di una situazione di oppressione. Il mercato del sesso è concepito come il risultato delle disuguaglianze di potere basate sul genere che riducono le donne a un oggetto mercificabile. Per questo motivo il sex work viene equiparato alla tratta della prostituzione, senza fare differenze: in ogni caso si tratterebbe di vittime dichiarate o inconsapevoli del sistema patriarcale che non possono agire una vera scelta.

Con l’entrata in vigore del Kvinnofrid, venne lanciata una campagna culturale di massa e questa ideologia si consolidò nel discorso pubblico ufficiale. La teorizzazione degli ideali nordici di uguaglianza di genere e di Welfare State venne esportato all’estero con il nome di modello svedese (o nordic model) adottato anche dalla Finlandia nel 2006 (parziale criminalizzazione), dalla Norvegia nel 2009, dall’Irlanda e dal Canada nel 2015, dalla Francia nel 2016. Nel 2014 il Parlamento Europeo ha approvato la Risoluzione Honeyball, che seppur non vincolante, mira a promuovere il modello nordico in tutta Europa attraverso organizzazioni come la European Women’s Lobby.

I risultati di questo approccio sono stati valutati in maniera molto diversa dai differenti attori in gioco: se da parte loro i Governi hanno dichiarato che la domanda e l’offerta di prostituzione sia diminuita, insieme alla criminalità associata al fenomeno, di tutt’altra opinione sono invece le/i sexworker riguardo alla qualità delle proprie condizioni di vita.

Il report Twenty years of Failing Sexworker, prodotto dal collettivo svedese di sexworker Fuckforbundet, analizza l’impatto della legge a 20 anni di distanza, denunciando la sistematica esclusione delle lavoratrici del sesso dal dibattito politico e mediatico in merito alla proposta di legge. Dall’entrata in vigore del modello si registra in primis un grave aumento di stigma contro le lavoratrici sessuali:

“Sebbene non sia illegale vendere prestazioni sessuali, le sex worker si percepiscono come ricercate dalla polizia. […] si percepiscono come prive di potere, in quanto le loro azioni sono tollerate ma la loro volontà e le loro scelte non sono rispettate”.

L’aspetto eclatante è che il Governo svedese ha riconosciuto pubblicamente l’aumento di stigmatizzazione ma ha dichiarato di voler leggere questo effetto negativo in maniera positiva, tenendo conto che lo scopo ultimo della legge sia proprio quello di combattere la prostituzione, a qualsiasi costo.

Nel Report viene inoltre denunciato l’aumento di insicurezza e precarietà economica a causa del clima repressivo che ha fatto diminuire la clientela. Tutto ciò costringe le sexworker ad accettare i pochi clienti rimasti che prima non avrebbero accettato, senza il tempo di valutarli in base alla loro pericolosità. In questo modo diminuisce il potere contrattuale delle sex worker nel negoziare il costo della prestazione e nell’imporre l’uso del condom. La necessità di nascondersi dalla polizia le costringe inoltre a spostarsi in luoghi sempre più isolati e pericolosi dove il rischio per la propria incolumità aumenta esponenzialmente, diminuendo la probabilità di essere raggiunti dai servizi sanitari e di riduzione del danno. 

La ricercatrice svedese Niina Vuolajärvi l’ha definito un “regime umanitarista della cura” in cui l’intento “femminista” della legge si contraddice con la modalità tramite cui esso si esercita: un’azione punitiva contro il mercato del sesso che controlla e stigmatizza le stesse persone che dice di voler salvare. Quello che ne scaturisce è un paradosso politico di compassione e disuguaglianza che ignora completamente i bisogni di chi esercita il sex work in percentuale maggiore: le persone migranti che, in fasi diverse del loro percorso migratorio, trovano nel sex work la loro fonte primaria di reddito. Vuolajärvi ha infatti osservato come il modello nordico in azione attivi uno slittamento che porta all’intersecarsi delle politiche relative alla prostituzione con quelle migratorie, generando un doppio standard di trattamento verso le/i sex worker migranti: mentre per le/i cittadin* svedesi sono previste politiche sociali di welfare per la fuoriuscita dalla prostituzione, le sexworker migranti vi sono escluse del tutto. Come nel resto del mondo, non hanno accesso a un permesso di soggiorno per lavoro sessuale e, se colte in attività prostitutiva, sono maggiormente esposte alla violenza della polizia, deportate ed espulse, anche se riconosciute come vittime di tratta e persino a conclusione di un percorso anti-trafficking.

Il progetto di studio SexHum ha inoltre evidenziato come la retorica dell’ “umanitarismo sessuale” si serva di categorie razzializzate per aiutare e controllare allo stesso tempo: è il caso della donna straniera che viene più facilmente identificata come vittima di sfruttamento in quanto prostituta migrante, senza interrogarsi se sia o meno una sex worker che cerca di autodeterminarsi nel proprio progetto migratorio. Le/i sexworker migranti da questo punto di vista fronteggiano una doppia discriminazione razzista e sessista da cui si generano i doppi standard di trattamento istituzionale.

In Francia la ricerca Emborders: Problematising Sexual Humanitarianism through Experimental Filmmaking ha intervistato 500 lavoratrici sessuali migranti e non, evidenziando:

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“[…] Una preoccupante diminuzione dell’uso del preservativo e una maggiore difficoltà nel continuare il trattamento per coloro che sono sieropositivi. Lo stress creato dal peggioramento delle condizioni di lavoro è anche alla radice di vari problemi di salute psicosomatica, dal consumo di alcol e droghe, alla depressione e ai pensieri suicidi”.

I risultati della ricerca rivelano che i casi di violenza contro le/i sexwoker sono aumentati e che l’impoverimento, i rischi per la salute e la maggiore esposizione alla violenza formano un circolo vizioso che si autoalimenta.

A confermare questi dati, il report del 2018 di Medicins du Monde France What do sex workers think about the French Prostitution Act, risultato di una ricerca biennale con la partecipazione di 583 sex worker intervistate: il 63% di loro ha dichiarato di aver subito un deterioramento delle proprie condizioni di vita, il 78% ha subito una perdita di reddito, il 42% è più esposta alla violenza e il 38% trova sempre più difficile chiedere l’uso del preservativo. Il 98% delle/degli intervistat* si dichiara contro il modello svedese.

In Irlanda, il report biennale prodotto dalla piattaforma no-profit Uglymugs ha evidenziato come, dopo l’introduzione dello Swedish Sex Purchase Act, gli atti di criminalità contro le/i sexworker siano aumentati del 90%. La rete ha inoltre chiesto al Governo di promuovere delle ricerche accademiche indipendenti che dimostrino il peggioramento della qualità della vita di chi fa lavoro sessuale in modo da mettere in discussione l’adozione del modello nordico.

Secondo sex worker e ricercatori, il problema principale di tale politica è che ignora totalmente le priorità e le esigenze delle lavoratrici del sesso migranti e non, contribuendo così alla loro elevata vulnerabilità socio-economica e sfruttabilità, nonché ai rischi di miseria ed espulsione. Ma a tali proteste, i sostenitori del modello nordico rispondono che accettare il sex work significa rappresentare il peggior capitalismo neoliberista disumanizzante, eludendo così alla domanda riguardo al costo umano che richiederebbe “eliminare” la prostituzione. Non si tratta infatti di cancellare una parola dal vocabolario, ma di milioni di persone nel mondo.

Come hanno dichiarato le OmbreRosse nell’articolo scritto in risposta alla Rete neo-abolizionista, il nemico delle sex worker non è la prostituzione ma lo stigma, quel genere di violenza di cui si alimenta lo stesso modello nordico per raggiungere il proprio scopo:

“Questo genere di femminismo neo-abolizionista si sta quindi assumendo la responsabilità di discriminare milioni di persone che fanno sex work in Italia e nel mondo? Si assume quindi la responsabilità di negare vite, voci, esperienze, diritti, dignità, autodeterminazione in nome di una ideologia? Allora questo non è e non sarà mai la nostra idea di femminismo […]. Quindi che sia chiaro: noi esistiamo e combatteremo sempre per i nostri diritti.
Fatevene una ragione.”

Artwork di Chiara Reggiani

Con immagini di: Matt Zulak su Flickr; CDC su Unsplash; @OmbreRosse.