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Sexwork feminism: storia di un movimento che ha preso parola
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Sexwork feminism: storia di un movimento che ha preso parola

Articolo di Lara Conte

Un giorno di tanti anni fa, tornando a casa da scuola, vidi per la prima volta delle signore che con abiti succinti passeggiavano avanti e indietro sul marciapiede. Chiesi a mia madre chi fossero e lei, con il tono di chi non ammette repliche, rispose che non erano donne “per bene”. Dal silenzio imbarazzato che aveva preceduto le sue parole, imparai che di prostituzione non si deve parlare troppo, meglio se per niente.

È un argomento considerato scomodo, ammantato di mistero e ambiguità, collocato nell’immaginario comune in luoghi pericolosi, popolati da personaggi poco raccomandabili, donne sfruttate per strada che vendono e uomini nascosti in auto, che comprano. In verità, la realtà è più complessa e variegata di così e comprenderlo è importante per discuterne in maniera adeguata.

Innanzitutto, come ben chiarito dalla Dichiarazione delle e dei sexworkers in Europa, la prostituzione è una delle tante branche dell’ampia categoria dell’industria del sesso in cui le lavoratrici e i lavoratori offrono volontariamente e su base consensuale prestazioni e servizi sessuali in cambio di denaro. Si tratta di un settore economico-commerciale che prevede una vasta gamma di servizi come strip-tease, hotline, pornografia, escort service, camsex, ecc. Chi vende non sono solo donne, ma anche uomini e persone trans in percentuali diverse; chi compra non sono solo uomini etero cisgender, seppure in numero maggiore.

Particolarmente significativa è la metafora utilizzata dalla psicologa e attivista Gail Pheterson, che definisce la prostituzione come un prisma luccicante e trasparante che attira lo sguardo su di sé e contemporaneamente lo devia. Questo per dire che l’ambiguità con cui viene rappresentato il mestiere si scontra invece con la chiarezza di ciò che prevede lo scambio. Forse è proprio tale chiarezza a renderlo un argomento difficile, in grado di provocare le spaccature ideologiche nel dibattito nazionale e internazionale. Questo perché, secondo la ricercatrice Giulia Garofalo Geymonat, parlare di prostituzione significa, in realtà, parlare di ruoli di genere e sessualità, in grado quindi di svelare aspetti profondi delle nostre società.

Tale attività, infatti, è legata a doppio filo ai rapporti di genere, sociali e di potere in cui le nostre relazioni sono immerse. Per capire meglio, basta osservare l’etimologia della parola “puttana”, che nasce da “putta” (ragazza) e va a indicare contemporaneamente il mestiere della meretrice e l’aggettivo dispregiativo di donna di facili costumi, disonesta, corrotta, spregiudicata. Da insulto di tipo sessuale, traccia una precisa connessione semantica tra femminilità e prostituzione, di cui un’ulteriore prova è la mancanza di un corrispettivo maschile.

“Essere una puttana” significa incarnare la trasgressione femminile per eccellenza: colei che viola i canoni e le regole della relazione eteropatriarcale, una donna con una sessualità che straborda la norma della monogamia socialmente imposta. Guadagnarsi questo appellativo, per una donna, è estremamente facile. Non serve nemmeno vendere servizi sessuali o avere una vita sessuale disinibita: basta sfoggiare una personalità indipendente o fare scelte non condivise. Alcuni conoscenti mi hanno confidato di utilizzarlo solo come sinonimo di “stronza”, per insultare una donna molto antipatica o una capa dispotica. Purtroppo, ben lungi dall’essere di fronte a un utilizzo originale del termine, si vede riconfermato nel suo ruolo di strumento sessista per colpire personalità femminili non-docili e non-assecondanti.

Il lavoro sessuale tira in ballo concetti cruciali del femminismo, sui quali i movimenti continuano a discutere generando spaccature profonde. In primis, il sexwork sfida duramente la dicotomia santa/puttana, argomento caro ai femminismi già agli albori della first wave feminism in Europa. In quegli anni, il neonato movimento abolizionista europeo denunciava la violenza del doppio standard di trattamento fra le donne, costrette alla castità e alla fedeltà se mogli, o condannate all’ostracismo se infedeli o prostitute. Il movimento si schiera contro gli abusi inflitti alle prostitute, ma condividendo l’idea di base che la prostituzione in sé non dovrebbe esistere.

Nel corso degli anni Settanta e Ottanta del Novecento il radical feminism decise invece di dichiarare guerra al lavoro sessuale, identificando tutta la prostituzione come atto di violenza eteropatriarcale contro le donne. Come illustra bene Giulia Selmi in “Sexwork. Il farsi lavoro della sessualità”, secondo questo approccio, ripreso poi dal movimento abolizionista europeo, il lavoro sessuale diventa sinonimo di tratta e sfruttamento secondo l’assunto che non possa esistere nessuna forma di consenso da parte delle donne che si prostituiscono. Questo perché i rapporti di genere e socioeconomici storicamente asimmetrici sottrarrebbero alle donne la possibilità di agire una vera scelta, rendendo ogni scambio commerciale sessuale uguale a uno stupro. Chi afferma di fare una scelta volontaria viene bollata di “falsa coscienza” e di complicità con l’oppressione del patriarcato che trasforma le donne in oggetti sessuali mercificabili (al riguardo si vedano i lavori di Catharine A. MacKinnon e Kathleen L. Barry).

Mentre i vari femminismi si spaccavano sulla questione della legittimità del lavoro sessuale, negli stessi anni accadde qualcosa di assolutamente innovativo: iniziarono a mobilitarsi i primi gruppi auto-organizzati di sexworkers, che rivendicarono la visibilità e il diritto di parlare di sé e per sé, contro la cultura dello stigma e le leggi criminalizzanti. Il 2 giugno 1975 è una data emblematica: Griselidis Rèal e altre 100 sexworkers occupano la Chiesa di Saint-Nizier a Lione, segnando simbolicamente il debutto del movimento sexworker europeo. Si chiedeva la fine degli abusi della polizia connivente con le organizzazioni criminali, il trattamento discriminatorio delle autorità pubbliche e si denunciarono a gran voce le contraddizioni del sistema abolizionista, che nei fatti non tutelava ma criminalizzava, rendendo la vita delle sexworkers insostenibile.

Nel 1980 Carol Leight, prostituta attivista americana del Gruppo Coyote, fa un gesto rivoluzionario: conia la parola “sexwork” e sovverte il linguaggio comune. La presenza della parola “work” sottrae la prostituzione dalla sfera semantica della violenza e della morale e la re-inscrive nell’universo simbolico del lavoro: il sexwork inizia a venir rivendicato pubblicamente come attività che produce reddito attraverso l’utilizzo delle risorse del corpo, esattamente come qualsiasi altro mestiere.

Il 1982 è il turno di Pia Covre e Carla Corso, lavoratrici di strada nei pressi di Pordenone, che decidono di unirsi per reagire agli abusi dei soldati americani stanziati nella base di Aviano. Insieme alle altre lavoratrici, fondano il Comitato per i diritti civili delle prostitute, che per primo fornisce un’analisi politica della loro situazione in Italia:

“Fino a quando siamo puttane, deletrici, quiescenti, ricattate vittime di un protettore che ci controlla e ci sfrutta veniamo tollerate, quando invece pretendiamo di usufruire degli stessi diritti riconosciuti a tutti i cittadini […] veniamo perseguitate e ricattate con la minaccia di toglierci i figli, del ritiro della patente, del foglio di via nemmeno applicato per i mafiosi riconosciuti”.

Secondo le attiviste, le cause della discriminazione sono duplici: il pregiudizio sociale contro il sexwork, comune a tutti i Paesi a prescindere dal tipo di legislazione; ma anche l’effetto perverso della legge abolizionista italiana (Legge Merlin n.1958/75) che tutt’oggi rende la prostituzione lecita ma non legale e criminalizza il lavoro attraverso il reato di adescamento e di favoreggiamento: questo significa che cercare clienti, lavorare insieme per sentirsi più sicure, assumere un bodyguard per difendersi, avere un/una partner che sa quello che fai e ti aiuta a farlo o anche affittare casa a una persona che decide di lavorare in appartamento piuttosto che in strada, sono tutti crimini perseguibili penalmente.

Nel mondo esistono diversi approcci legislativi sul tema che sono cambiati nel tempo, ma l’unica cosa che rimane immutata è lo stigma. Ed è proprio questa specifica forma di discriminazione unica nel suo genere a rappresentare l’eccezionalità del lavoro sessuale: come espresso dai diversi punti del Manifesto del Comitato internazionale per i diritti dei/delle sexworkers in Europa (Icrse), il sexwork non è un lavoro come tutti gli altri, non tanto per la natura del servizio offerto, ma piuttosto perché nessun altro lavoro soffre di tale stigmatizzazione, ricatto e marginalità sociale. Questo è il motivo principale per cui una sexworker si sente costretta all’invisibilità, di qualsiasi estrazione sociale o provenienza: per proteggere se stessa, familiari e amici dalla violenza dello stigma. Esso è il motivo per cui una lavoratrice del sesso è facilmente screditabile di fronte alla legge e rischia di perdere i propri figli.

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Ed è proprio la consapevolezza di essere unite da un tipo di discriminazione unico nel suo genere che porta centinaia di sexworkers a fondare nel 1985 l’International Commitee for Prostitute’s Rights (ICPR) ad Amsterdam, a cui segue il primo World Whore Congress della storia. La prima “Carta Mondiale dei Diritti delle Prostitute” traccia un solco politico decisivo, con l’obiettivo di fondare una nuova narrazione del sexwork e una piattaforma politica comune.

Consapevoli del significato politico del proprio lavoro, molte sexworkers invocano l’alleanza con il femminismo poiché si identificano nei valori dell’indipendenza, dell’autonomia economica, dell’autodeterminazione sessuale, della forza individuale e della sorellanza, come affermato nello “Statement on Prostitution and feminism” nel II World Whore Congress. Secondo Gail Pheterson, la punta di diamante del sexwork feminism è proprio l’autodeterminazione sessuale, poiché chi fa sexwork esercita una libertà sessuale che non ha pari, esprime un rifiuto netto contro la dicotomia santa/puttana e in questo modo scardina i binari imposti alla sessualità femminile dall’ordine etero-patriarcale. Contemporaneamente, secondo Giulia G. Geymonat, il sexwork sfida la tradizionale visione di genere del lavoro perché la forma contrattuale della prostituzione cozza con la pretesa che il lavoro di cura affettivo, relazionale e sessuale da parte delle donne debba da sempre essere naturalizzato, non pagato e invisibile.

In quanto sex-experts, i gruppi di sexworkers iniziano a smontare un altro stereotipo: quello di essere gli untori della società, diffondendo malattie sessualmente trasmissibili e il virus dell’Hiv nelle comunità. A ben vedere, chi lavora con la sessualità ha una cura e una consapevolezza maggiore della propria salute: già a partire dagli anni Ottanta, sono proprio le associazioni di sexworkers ad attivarsi per diffondere informazioni e sviluppare programmi di ascolto, assistenza ed educazione alla salute sessuale per sé e i propri clienti. Esempi significativi sono i servizi offerti dalla rete Global Network of Sexwork Projects e la rete Tampep.

Infine, è importante fare chiarezza sulla relazione che c’è tra sexwork e sfruttamento della prostituzione: anche il lavoro sessuale è passibile di sfruttamento, come accade in qualsiasi altro settore. La differenza la fanno le politiche di tutela del lavoro che uno Stato decide di produrre e le risorse sociali e di welfare che esso investe a garanzia dei lavoratori. Come sancito a chiare lettere da centinaia di sexworkers durante la Conferenza Europea su Sex Work, Diritti Umani, Lavoro e Migrazione del 2005 a Bruxelles:

“L’alienazione, lo sfruttamento, l’abuso e la coercizione effettivamente esistono nell’industria del sesso come in qualunque altro settore industriale; essi non definiscono noi e la nostra industria. Tuttavia solo nel momento in cui il lavoro viene formalmente riconosciuto, accettato dalla società e sostenuto dai sindacati, si possono stabilire dei limiti”.

Uno Stato che legifera per criminalizzare il sexwork non ha mai eliminato del tutto nessuna industria del sesso e sicuramente non rende le e i sexworkers meno sfruttati. Al contrario, leggi criminalizzanti legittimano una visione negativa del lavoro sessuale, alimentandone lo stigma sociale. In questo modo una sexworker sarà più vulnerabile, perché non si esporrà, per esempio, nel denunciare un abuso per paura di essere riconosciuta e discriminata. Ciò determina un brusco salto indietro nella sfera dei diritti della persona, regala ampio terreno alla criminalità organizzata e rende la lotta contro la tratta e lo sfruttamento ancora più difficile.

Quindi cosa si può fare? Intanto ascoltare quello che i movimenti di sexworkers chiedono da tempo, cioè iniziare a decriminalizzare il lavoro sessuale, abolendo quelle leggi che direttamente e indirettamente colpiscono chi vende e compra servizi sessuali. Finora solo il territorio australiano del New South Wales e la Nuova Zelanda hanno adottato tale approccio, ottenendo risultati giudicati molto positivamente dalle organizzazioni di sexworkers, come la Scarlet Alliance, in termini di aumento del potere contrattuale, lotta allo sfruttamento, sicurezza lavorativa, diminuzione dello stigma ed empowerment. E questo a giovamento di tutte e tutti, non solo di chi lavora con il sesso.

Immagine di copertina: Mario Gogh
Immagini presenti nell’articolo: Tampep, Global Network of Sex Work Projects, ICRSE
View Comments (4)
  • Domanda. Seria. Ho letto nell’articolo che anche lo strip-tease è considerato una forma di sex work. È considerato tale anche il nudo erotico però non proprio esplicito? Per intenderci, quello di riviste come Playboy o come il nudo basato principalmente sui topless, come nella tradizione britannica di riviste tipo Nuts? Insomma quello in cui le donne sono sì nude ma non mostrano i genitali, si limitano ai sensi eventualmente enfatizzandoli.

    Preciso che la mia è una domanda seria. Mi ha incuriosito l’articolo e la presenza di una specie di convenzione. Quindi chiedo sul serio.

    Grazie.

  • Ciao Guido, tutto ciò che rientra nell’industria del sesso, quindi ha a che fare con la sessualità e l’immaginario erotico, è definibile come sexwork.

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