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Sostenibilità ed emancipazione femminile: cosa ci insegna la storia dei collant in nylon
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Sostenibilità ed emancipazione femminile: cosa ci insegna la storia dei collant in nylon

“Reduce, reuse, repair, recycle”. Se fate parte di una qualsiasi comunità di moda sostenibile (o di sostenibilità in generale) avrete sentito sicuramente questi concetti più volte riproposti come regole auree da seguire per un approccio etico alla moda e alla gestione dell’economia domestica. Vorrei proporvi di tenerli a mente mentre parliamo di un materiale e una sua applicazione specifica: il nylon utilizzato per i collant.

Le calze velate nascono nel 1300, diventano simbolo di femminilità e preziosi capi di artigianato dopo il 1600, ma fino agli anni Venti del Novecento furono ad appannaggio delle persone di classe sociale alta. Si tratta di calze costituite da filo di seta e richiedevano l’uso del reggicalze. La fibra di seta è una fibra naturale dalla luminosità ad oggi inimitabile, elastica ed estremamente resistente, ma all’epoca veniva prodotta solo in Giappone e i costi di produzione risultavano proibitivi. Dal dopoguerra però, a seguito dell’invenzione del nylon e la sua applicazione nel settore, le calze non sono più un prodotto esclusivo per le donne ricche: l’utilizzo del nylon infatti abbassa il costo delle calze abbastanza da consentire a tutte le donne, di qualsiasi classe sociale, di poterne possedere almeno un paio. Le calze trasparenti con la caratteristica cucitura sul retro diventano così un accessorio femminile di base. Le proprietà del nylon sono però del tutto diverse da quelle della seta, infatti la fibra non solo risulta fredda e poco traspirante ma non è resistente e le donne scoprono l’annoso problema delle calze smagliate.

Le calze in nylon si evolvono nuovamente negli anni Sessanta e nascono i moderni collant che non richiedono l’utilizzo di reggicalze. Continuano però ad avere performance molto diverse dalla seta e il problema delle smagliature resta, ma quindi perché continuare a usare il nylon? La ragione è puramente economica: il nylon costa pochissimo e può essere prodotto in diverse parti del mondo. Se andiamo però a vedere l’accoglienza di questi prodotti fino agli anni Ottanta ci accorgiamo che vennero presentati come un mezzo di emancipazione femminile, sia per la loro possibilità di essere indossati senza reggicalze, in molteplici colorazioni e con le minigonne, sia per la possibilità di essere acquistate da tutte. Le calze sempre più economiche mandarono in pensione due realtà: innanzitutto, la riparazione casalinga dei collant, che veniva praticata con aghi piccolissimi simili a quelli dei chirurghi con cui il filo smagliato veniva ritessuto manualmente, e che risultava non solo estenuante ma che richiedeva anche un tempo non indifferente. Altra realtà conseguente che sparì velocemente fu quella dei negozi appositi per la riparazione delle calze a cui però si potevano rivolgere solo donne più privilegiate. Questo dato evidenzia come le donne abbiano preferito spendere meno per calze di qualità via via inferiore per scaricarsi dall’impegno di dover riparare le calze rotte, ma anche di doverle far riparare.

Questa storia ci porta all’utilizzo moderno e alle conseguenti criticità date dall’alto ammontare di collant (19 paia all’anno secondo i dati Nielsen 1999), utilizzate in media tre volte e poi buttate, che vanno a rinfoltire i rifiuti in plastica.

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Per quanto, dunque, il concetto di riparare e riutilizzare sia assolutamente essenziale, soprattutto in un periodo storico in cui la norma è costituita dalla fast fashion e dalla moda “usa e getta”, d’altro canto penso si debba sempre fare attenzione al tipo di messaggio che si rischia di trasmettere quando si parla di “regole auree” della sostenibilità e a chi le si sta rivolgendo. Nelle community sostenibili spesso si rischia di sentire affermazioni classiste e grassofobiche e viene di frequente chiesto, soprattutto alle donne, di fare una serie di sacrifici che sulla loro vita hanno un impatto notevole. Quando, per essere considerate paladine della sostenibilità, viene imposto ad esempio di riparare i capi, spendere tempo ed energie in più per valutare l’acquisto migliore, andare alla ricerca di marchi etici, spulciare in mercatini vintage e sperare di trovare qualcosa di adatto a sé e della propria taglia, trovare unə sartə a cui portare i capi che necessitano riparazioni o modifiche, si sta chiedendo in realtà uno sforzo non da poco e non possibile sempre o per tutte. Il lavoro domestico non retribuito infatti per le donne è già stimato oggi a tre ore giornaliere oltre il lavoro retribuito. Queste ore per le generazioni prima di noi e per le donne che non hanno un lavoro stipendiato raggiungono e possono superare le otto ore giornaliere di lavoro non retribuito. Per questo credo che la richiesta dei motti zero waste, se non è adeguata al contesto, non solo può rischiare di essere classista perché potrà essere perseguita solo da persone più privilegiate che possono permettersi un dispendio energetico e di tempo maggiore di quello di classi più svantaggiate, ma soprattutto si sta chiedendo soprattutto alle donne di aumentare le ore di lavoro non retribuito settimanale.

Con queste riflessioni la mia intenzione non è affatto quella di giustificare pratiche poco sostenibili, ma di invitare la comunità a indagare sempre i bisogni che portano a determinati comportamenti e tenere costantemente in conto il proprio privilegio. La sostenibilità forse non parte da una consapevolezza individuale quanto piuttosto da una rivoluzione del sistema economico che garantisca una paga equa e che mandi in pensione le otto ore basate sullo sfruttamento femminile. Finché vivremo in questo sistema, però, dobbiamo sempre ricordarci di declinare il concetto di sostenibilità in base alla situazione personale, ai privilegi che si detengono e alle opportunità che si hanno.

Artwork di: Chiara Reggiani
Con immagini di Noah Buscher, Markus Spiske, Clem Onojeghuo, Artem Labunsky, Chris Barbalis, Manki Kim su Unsplash

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