Un film è un’alchimia complessa di stimoli sensoriali: ci si può emozionare per le immagini, per le parole, per le azioni, per la musica, ma non mi era ancora capitato di emozionarmi per i silenzi.
O forse sì. Puntata di Bojack Horseman preferita? “Fish Out of Water”, un episodio interamente sott’acqua dove i personaggi sono muti come pesci. Puntata di Buffy The Vampire Slayer preferita? “Hush”, in cui a Sunnydale arrivano dei demoni che rubano le voci degli abitanti per poterli uccidere nel cuore della notte.
Se però in questi due esempi ci troviamo evidentemente davanti a un gioco formale in cui l’assenza di suono è usata come metafora dell’incomunicabilità fra le persone, i silenzi di “Sound of Metal” – opera prima di Darius Marder uscita in Italia questo mese su Amazon Prime Video – sono assolutamente reali e tangibili come forse mai si era sperimentato al cinema.
La pellicola racconta la storia di Ruben Stone, batterista dei Backgammon – un rumorosissimo power duo con la compagna Lou alla voce e chitarra che sembra un incrocio fra Einstürzende Neubauten e The Kills – il quale diventa improvvisamente sordo mentre si trova in tournée. L’evento sconvolgerá la sua vita umana e professionale obbligandolo a un inaspettato percorso di crescita personale.
Come si sarà intuito, la struttura narrativa del film è piuttosto semplice e segue la classica parabola di caduta e reinvenzione del protagonista, che si strugge per recuperare il proprio status quo finché non capisce che ciò che è stato è ormai irreversibile. Forse, più che in un “viaggio dell’eroe”, ci troviamo di fronte a qualcosa di molto più simile a un “viaggio dell’eroina”, secondo la definizione che ne dà Marina Pierri riferendosi alla necessità dei personaggi femminili, nella narrazione archetipica, di distruggere la gabbia in cui sono cresciute per appropriarsi della propria identità. Al termine del percorso, Ruben non sarà solo una versione aumentata del sé iniziale, ma diverrà altro, qualcosa di più ricco.
Prima ancora di vedere il primo fotogramma del film sentiamo il suono prolungato di un feedback che sembra extra-diegetico, ma che – appena il nero si dissolve – capiamo provenire dalla performance live dei Backgammon: già con questo raffinato gioco cinematografico, il regista dimostra di voler alzare la posta narrativa. Marder rinuncia infatti per tutto il film alla colonna sonora tradizionale, proponendo un’alternanza fra suoni ambientali effettivi e suoni percepiti dal protagonista: quando questo accade, è come se stessimo assistendo a una soggettiva che anziché essere visuale è sonora. In un mondo fatto di rumori, è dunque la loro assenza a creare la tensione, in un felice climax controintuitivo che procede di sottrazione. E se il compito di portare avanti una storia è solitamente affidato ai dialoghi, qui la funzione è assolta con successo dai suoni, che diventano veicolo limpido di situazioni, stati d’animo e nuove connessioni fra le persone.
C’è da parte di Marder una cura formale chirurgica che però non appesantisce mai il racconto: ogni scelta è assolutamente funzionale e mai vezzo stilistico.
Ora, non so se da qui in poi si possa parlare propriamente di SPOILER, ad ogni modo eccovi qualche esempio.
Le immagini
L’inquadratura reiterata più volte dell’interno del furgone in cui vivono Ruben e Lou – una composizione simmetrica inizialmente densa di oggetti che finisce per svuotarsi fino a scomparire – può essere eletta a perfetta metafora del cambiamento interiore del protagonista. L’uso della camera a mano e di una fotografia granulosa e desaturata contribuiscono a restituire un clima documentaristico, fortemente ancorato al reale e senza nessuna concessione onirica o romanticizzata alla storia.
Le parole
I dialoghi sono ridotti all’osso. Basta un rapido scambio fra Ruben e Joe, direttore del centro per persone sorde in cui il batterista cerca riparo, per capire tanto del protagonista. “Da quanto sei pulito?” “Quattro anni“ […] “Da quanto tempo state assieme?” “Quattro anni”. La sua dipendenza, il ruolo che la compagna ha svolto nel suo recupero, tutto riassunto in poche battute.
Una mossa narrativa coraggiosa è quella di aggiungere dettagli sul vissuto personale del power duo solo verso la fine del film attraverso le parole di Mathieu Amalric: se nella narrazione di genere queste informazioni vengono solitamente trasferite a chi guarda già nel primo atto per suscitare empatia con i personaggi, arrivati a questo punto non sono più neanche tanto importanti, perché abbiamo già capito chi sono e cosa aspirano ad essere e già vogliamo loro bene: li capiamo solo un po’ di più e percepiamo che quella comprensione verso le loro debolezze era ben riposta.
Le azioni
Lou che riprende a graffiarsi il braccio come quando era in tour, alla prospettiva di ricominciare la vita di prima; un abbraccio di gratitudine reciproca tra i due amanti; la rinuncia di Ruben all’impianto cocleare per continuare a vivere la ricchezza strabordante del silenzio in cui vive: una serie di azioni palesano la consapevolezza che niente tornerà come prima e che è giusto che sia così.
“Sound of metal” non è certo il primo film nell’epoca del sonoro che rinuncia alla musica extra-diegetica (un esempio è il crudissimo western-horror “Bone Tomahawk”). Il suo merito è però di raccontare la sordità in modo nuovo, facendo tesoro della lezione appresa in quest’epoca in cui finalmente si comincia a “passare il microfono” rifuggendo il cosiddetto “inspiration porn”: la disabilità non vista come deficit (“Qui tutti condividono l’idea per cui la sordità non è un handicap, nè qualcosa a cui rimediare”, dice a un certo punto Joe), ma come prospettiva altra sul mondo. Lo fa con una messa in scena coerente e asciutta, proponendo interpreti sord* nelle scene presso il centro e incorporando i sottotitoli come parte integrante del film, per includere nella storia anche le persone di cui parla. Riz Ahmed, nei panni del protagonista e che non è sordo, restituisce una interpretazione gigantesca di Ruben: forse state pensando alla problematicità della Alma di Rosa Salazar nella serie “Undone” (se non l’avete ancora vista, recuperatela ORA), ma nel caso di “Sound of metal” l’obiettivo è raccontare un cambiamento che mette il protagonista a disagio, non una condizione di partenza. Il suo timido apprendimento del linguaggio dei segni riflette le incertezze dell’attore, che non lo conosceva prima di partecipare al film. Intendiamoci, non che chi non fa parte di questo mondo rischi di non capire il film: l’esperienza cinematografica è catartica perché la parabola di Ruben è quella che chiunque prima o poi si ritrova a vivere quando viene a mancare una certezza da sotto i piedi.
Qualche tempo fa una persona a me vicina mi chiese se, di fronte alla possibilità un giorno di poterci sentire dall’orecchio destro, avrei scelto di recuperare l’udito (ho una malformazione dalla nascita, niente che abbia mai vissuto come un vero e proprio limite o che mi abbia impedito di suonare per anni davanti a migliaia di persone). Dissi subito di no, ma poco dopo mi meravigliai della rapidità della mia risposta. “Sound of Metal” mi ha fatto mettere a fuoco il perché, e perché ritengo quella risposta ancora valida.