Articolo di Rachele Agostini
22 Ottobre 2009, reparto di medicina protetta dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma. Nelle prime ore del mattino viene trovato il cadavere del trentunenne Stefano Cucchi, geometra romano con problemi di tossicodipendenza, arrestato sei giorni prima e processato per spaccio e detenzione di stupefacenti.
Quel giorno comincia per la sua famiglia (i genitori Rita e Giovanni, la sorella Ilaria) una lunga battaglia per la verità.
Verità, perché le cause del decesso di Stefano non sono giustificabili dalla sua epilessia cronica, e l’autopsia rivela sul suo corpo tracce di violenza assenti fino al momento dell’arresto.
Da nove anni il Caso Cucchi è esaminato da periti e pubblici Ministeri, che cercano di far funzionare gli ingranaggi della giustizia italiana.
Cinque carabinieri sono attualmente imputati in un processo di primo grado, con accuse di omicidio preterintenzionale, calunnia, falso e abuso.
Sulla Mia Pelle, scritto e diretto da Alessio Cremonini, nasce dalla necessità di portare in scena la vicenda della famiglia Cucchi, attraverso il racconto degli ultimi giorni di vita di Stefano.
Il film ha aperto la Sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia appena conclusa, raccogliendo critiche quasi unanimemente entusiaste.
Da mercoledì è disponibile in 190 Paesi sulle piattaforme Netflix (che l’ha prodotto e lo distribuisce insieme a Lucky Red), ed ha contemporaneamente debuttato in un circuito ristretto di sale cinematografiche italiane.

Proprio mercoledì, mentre mi accingevo a vedere il film prendendo posto in una di queste sale, avevo già la mezza idea di parlarne in un articolo.
Nello stesso momento però avevo anche qualche dubbio: mi domandavo se la storia che stavo per vedere sullo schermo, finora raccontata solo dai telegiornali, fosse davvero attinente ai temi di cui ci occupiamo.
Ebbene, il film non era nemmeno a metà che i miei dubbi erano spariti.
Perché alla fine dei conti, Sulla Mia Pelle parla di una negazione di diritti umani, favorita da abusi di potere, finita in tragedia per negligenza e per omertà.
Parlarne qui non è solo appropriato, secondo me, ma proprio doveroso.
Una cosa da mettere in chiaro subito, per evitare di cadere in certe polemiche già sentite e davvero sgradevoli, è che non è mia intenzione – come non è intenzione di chi ha realizzato il film – puntare il dito contro un’intera categoria.
Quando si parla della vicenda di Stefano Cucchi si dice spesso che si tratta di una vittima dello Stato, e lo si dice perché fra i doveri delle Istituzioni di ogni Paese dovrebbe esserci anche un corretto giudizio dei cittadini che infrangono la legge, e la loro tutela durante la fase di rieducazione.
Ciò non significa, nella maniera più assoluta, che ogni esponente delle forze dell’ordine meriti di sentirsi il sangue di Stefano sulle mani. Se qualcuno uscirà dalla visione pensandolo è perché ne era già convinto prima; il film non dice questo, e nemmeno santifica in alcun modo la figura di colui che pure è la vittima.
I 100 minuti di questo racconto mostrano una persona che ha fatto degli errori, e denunciano quanto sia sbagliato che abbia dovuto pagarli con la vita.
Lo fanno senza mai cadere nella spettacolarizzazione morbosa della violenza (e non è facile, visto che la violenza è la storia).
Lo fanno anche e prima di tutto grazie ad un uso magistrale del mezzo cinematografico, messo a servizio del messaggio in ogni reparto tecnico, e grazie a grandi prove attoriali – in particolare quella di Alessandro Borghi che, del tutto trasformato e “sparito dentro” Stefano, riesce a restituirlo perfettamente senza mai imitarlo, e porta sulle proprie spalle quasi tutto il peso del film.

Il fatto è questo: non c’è nemmeno un minuto, nel susseguirsi delle immagini, che sia gradevole o esteticamente appagante. Lo spettatore deve essere pronto a trovarsi in una condizione di tensione e disagio che non si interrompe mai.
Nulla è bello da vedere: i toni della fotografia sono freddi, le ambientazioni squallide e decadenti, il montaggio (visivo come sonoro) crudo, la colonna sonora opprimente.
È un film meraviglioso, perché è terribile.
Perché le vicende raccontate sono terribili, e sono vere, e provare a metterle sullo schermo in modo anche solo vagamente “grazioso” avrebbe voluto dire mancare immensamente di rispetto a tutti coloro che ancora ci fanno i conti nella vita reale. Cominciando dai componenti della famiglia Cucchi (che non incasseranno alcuna percentuale dei proventi del film, pur essendo stati essenziali nella realizzazione, collaborando alla ricostruzione di tanta parte dei fatti), ma non solo.
Perché un’altra cosa che ci viene detta in questi 100 minuti è che quello di Stefano non è un caso isolato, non in Italia e di certo non nel mondo.

Va guardato, questo film.
Per Stefano e la sua famiglia, di cui conosciamo i volti, per tutti gli sconosciuti che condividono il loro stesso destino, ma ancora prima per noi.
Dobbiamo lasciarci colpire da questa storia. Anche se parla di cose con cui mai vorremmo dover fare i conti.
Anzi, proprio per questo.