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Sulla presunta inevitabilità del dolore femminile
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Sulla presunta inevitabilità del dolore femminile

Articolo di Benedetta Geddo

Quando ero in cura dalla mia prima ginecologa, mi sono ritrovata a prenotare tre o quattro visite nell’arco di altrettanti mesi, perché ero bloccata in un circolo vizioso (e doloroso) dal quale non sapevo proprio come uscire: iniziavo a soffrire di un’infezione vulvare, senza apparente motivo, che mi veniva consigliato di curare con antibiotici; l’antibiotico inevitabilmente faceva esplodere la candida; il mese dopo ecco che tornava l’infezione, e poi l’antibiotico, e la candida, e via così. Ve lo dico, non era divertente: non solo per il dolore fisico, che non era una passeggiata, ma anche per la frustrazione mentale di non sapere cosa fosse e non avere idea di come curarla definitivamente. L’unica spiegazione che mi aveva fornito la mia ginecologa era che fosse “un po’ di vulvodinia”, senza spiegarmi bene cosa fosse questa vulvodinia, quanto fosse “un po’”, perché mi fosse venuta, cosa avrei potuto fare per prevenirla. Ho scoperto da sola che sotto la definizione di “vulvodinia” ci si buttano tutti i disturbi e i dolori vulvari, come fosse un grosso termine ombrello per dire “sappiamo cosa non è, ma non cosa è”. Il fatto che quella fosse l’unica descrizione possibile di un fastidio così costante e così debilitante mi aveva lasciata sconvolta. Possibile che non se ne sappia di più, che non si facciano ricerche?

Giusto quest’anno invece, dopo il mio venticinquesimo compleanno, sono stata chiamata dal programma di screening Prevenzione Serena della Regione Piemonte per fare il mio primo Pap test. Ero abbastanza nervosa e l’ho detto subito alla ginecologa che mi avrebbe dovuto fare il prelievo. Lei mi ha risposto che “non avrei sentito niente”, ma non con il tono rassicurante che mi sarei aspettata. Sembrava quasi scocciata dal mio nervosismo e, quando durante il prelievo ho fatto un verso di dolore (un verso neanche drammatico, ho solo risucchiato l’aria a denti stretti, nessun urlo da film), mi ha detto che “facevo troppe storie”, “era finito tutto subito”, “non ci è voluto niente, no?”. Non ha usato neanche una goccia di lubrificante e credevo avesse fatto così per non falsare i risultati del prelievo, ma poi ho sentito di altri ginecologi che invece lo usano senza problemi: lei semplicemente ha scelto di non usarlo, esattamente come non lo usava mai la mia vecchia ginecologa. Come a dire che il male che avrei potuto sentire lo avrei dovuto sopportare. Perché alla fine è questo quello che fanno le donne: sopportano il dolore. Quello che mi chiedo dunque è perché si dia per scontato che le donne sopportino il dolore. Perché quando si parla della salute fisica di una donna, ci si aspetta sempre che ci sia del dolore che non si possa evitare e quindi “dai, stringi i denti che passa”, nonostante poi si racconti che le donne siano deboli e delicate e svengano alla vista del sangue. C’è questa credenza diffusa che il dolore sia insito nell’esperienza dell’essere donna, che non esista uno senza l’altra.

Nella sua Grand Unified Theory of Female Pain, la scrittrice Leslie Jamison collega l’ineluttabilità del dolore femminile a tutte le rappresentazioni di donne sofferenti che abbiamo avuto nel corso della storia dell’umanità in ogni tipo di media: il dolore rende queste donne belle, desiderabili o angeliche e le eleva rispetto alle persone che stanno loro attorno. Questa esaltazione del dolore femminile inoltre entra in campo per ogni tipo di disturbo, che sia fisico o mentale. Ma c’è una forte dissonanza che la società patriarcale opera in modo talmente radicato da essere quasi inconscio, prosegue Leslie Jamison: ci piace l’idea del dolore femminile, perché rende le donne vulnerabili esattamente come il patriarcato le vuole, ma non ci piace vederlo performato. Alla lunga le manifestazioni di dolore ci annoiano e ci mettono a disagio. E di nuovo si torna a soffrire in silenzio, a sobbarcarsi dolore fisico e dolore emotivo senza darlo a vedere, altrimenti ci si sente dire che si sta esagerando, che “non è poi così grave”, che è tutto nella nostra testa – e dalle diagnosi di “isteria” che andavano tanto di moda nell’Ottocento ad oggi le cose sono cambiate, sì, ma forse la sostanza è rimasta la stessa. Alla fine, le donne sono castigate per il loro essere “troppo sensibili” ma allo stesso tempo ne sono intrappolate, perché spesso si tende a credere che il dolore sia tutto una loro invenzione.

“Uno studio del 2001 intitolato ‘The Girl Who Cried Pain’ cerca di dare un senso al fatto che è più probabile che agli uomini vengano dati medicinali quando lamentano un dolore ai loro dottori rispetto alle donne. Alle donne è più probabile vengano dati dei sedativi. Lo studio mette bene in chiaro tutta una serie di pericolose credenze: non solo che le donne hanno una tendenza al dolore, ma anche che hanno una tendenza a inventarselo. Lo studio ha stabilito che nonostante ci siano prove che ‘le donne sono biologicamente più suscettibili al dolore degli uomini… i loro sintomi sono presi meno seriamente’. E con ‘meno seriamente’ si intende, nello specifico, ‘è più probabile che il loro dolore venga declassato a emotivo o psicogeno e quindi non reale'”.
Leslie Jamison

Rimanendo sul piano fisico, l’esempio della vulvodinia è utilissimo per mostrare come ci sia poca ricerca nell’ambito della salute femminile, soprattutto quella intima. Cos’è la vulvodinia? Non lo sappiamo davvero. Sappiamo che non è candida e non è una malattia o un’infezione sessualmente trasmissibile, ma non sappiamo davvero cosa sia. E quindi non sappiamo come curarla quando viene identificata. In ambito ginecologico, avere una diagnosi certa e inconfutabile non è scontato: molte donne raccontano di attese eterne perché venisse loro diagnosticata l’endometriosi o la sindrome dell’ovaio policistico o appunto la stessa vulvodinia.”È un disturbo temporaneo, poi passa”, “Un po’ di dolore durante il rapporto è normale, parlane col tuo partner o cerca di rilassarti prima”, “Eh, i crampi sono quelli che sono ma poi vanno via”. Basta chiedere in giro per notare come queste storie, tantissime e tutte diverse, siano unite dallo stesso filo conduttore: il dolore, dal quale non si può scappare in quanto donne e che ci dobbiamo tenere.

Quest’idea ci viene inculcata fin da subito, fin quando ci viene detto da chiunque (amici, familiari, film, libri, cultura popolare…) che “è normale che il primo rapporto sessuale faccia un po’ male” quando invece non è normale per niente. Un rapporto sessuale, che sia il primo o il centesimo, non dovrebbe provocare dolore, ma alle ragazze non lo si insegna e quel “po’” non viene mai quantificato, quindi loro stringono i denti, tanto è normale, non si azzardano a chiedere di usare il lubrificante, e via a ripercorrere sempre questo eterno circolo di silenzio e dolore.

Una situazione simile si ripresenta nel caso dei dolori mestruali: ci viene detto che i crampi sono ordinaria amministrazione, ma allo stesso tempo nessuno vuole sentire una donna che si lamenta del male causato dalle mestruazioni. Anzi, nessuno vuole sentire parlare di mestruazioni in generale. Quindi, proprio perché è un dolore dato per scontato e al quale non si presta poi tanta attenzione, le donne se lo devono tenere, lamentandosene il meno possibile. Se non fosse che il principio dei crampi mestruali è lo stesso delle contrazioni del travaglio, che è una delle esperienze umane più dolorose di sempre, e suddetti crampi possono arrivare a essere talmente forti e debilitanti da rendere praticamente impossibile qualsiasi altra attività durante i giorni delle mestruazioni.

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L’idea che il dolore femminile sia impossibile da evitare e che allo stesso tempo non sia poi così grave è talmente radicata nella nostra società che genera un continuo fenomeno di gaslighting, in cui sono le donne in primis a chiedersi se non stiano effettivamente esagerando. Se non stiamo facendo una scena per nulla, quando basta sopportare un po’ e cercare di non pensarci: sono tantissime le testimonianze di donne arrivate in ospedale all’ultimo momento, perché “ho avuto mestruazioni peggiori”, per poi scoprire di aver minimizzato il dolore e di essere nel pieno di un’emergenza. Ci sono studi che confermano che nelle sale del pronto soccorso, a parità di sintomi, è più facile che siano gli uomini quelli ai quali vengono prescritti gli antidolorifici oppiacei, o che gli uomini siano immediatamente presi sul serio e aspettino molto meno prima di una visita. Quando la svalutazione del dolore fisico arriva da ogni parte, dalla cultura che consumi ai dottori che ti dicono che hai perso tempo a farti controllare perché è tutto nella tua testa, alla fine cominci a convincertene anche tu. Forse è anche per questo che certe visite ginecologiche possono essere dei veri e propri traumi: ho parlato con diverse donne, giovani e non, che non ci vanno volentieri e rimandano fino all’ultimo anche una semplice visita di controllo, quella che dovrebbe essere fatta annualmente. Ovviamente il discorso non vale sempre né per tutta la categoria dei medici ginecologi, ma non in tutti gli ambulatori si trova un ambiente accogliente e, se si aggiunge quanto delicata sia la visita, si capisce bene perché tante persone cerchino di starne il più lontano possibile.

Per più della metà della popolazione, il dolore fisico viene dato per scontato, si crede sia inevitabile, e le conseguenze di questo modo di pensare sono dappertutto, talmente attaccate alle ossa della nostra società che nemmeno le riconosciamo. Sono lì nel modo in cui le mestruazioni sono sminuite e ridicolizzate; sono nell’assoluta certezza che siano le donne a dover farsi carico degli effetti del contraccettivo ormonale mentre nel momento in cui gli uomini sperimentano un leggero fastidio si interrompe la ricerca per realizzare un contraccettivo maschile; sono nelle visite ginecologiche traumatiche fatte con strumenti virtualmente identici a quelli usati all’epoca dell’Antica Roma e nel paternalismo di certe frasi e reazioni per cui “siete voi che state esagerando, la situazione non è poi così tragica”.

Il problema è che a volte la situazione è tragica davvero, e bisogna fare di meglio.

Immagine di copertina: Luisa Fernanda Castellanos
Immagini: Cecily Brown, Pinterest
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