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Teste spelacchiate e come conviverci
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Teste spelacchiate e come conviverci

Scrivo qui perché Bossy è letto da tante persone. E scrivo perché tante persone, molte più di quelle che immaginiamo, perdono i capelli. Scrivo perché in pochi parlano di noi e perché non ho ancora ascoltato da nessuno ciò che avrei voluto sentirmi dire.

Scrivo ciò che avrei voluto leggere quando tutto è iniziato, sperando di fare cosa utile per qualche altra persona spaventata e in ansia. E scrivo per chi non affronterà mai nulla di simile, ma vuole comunque cercare di comprendere chi invece non è così fortunato.

La caduta

Mi sono accorta del problema improvvisamente. Ero sotto la doccia e continuavo a togliermi i capelli bagnati di dosso. È iniziata con un senso di ribrezzo. Ho pulito il piatto doccia dai resti di quell’eccidio e ho avvolto la mia folta chioma in un asciugamano. Quando l’ho tolto, tamponando le lunghezze come ho sempre fatto, è iniziato il dramma. Ciocche di capelli che si staccavano senza che le sfiorassi. Schifosi gomitoli che scendevano inesorabilmente verso il basso, appiccicandosi ovunque.
Ho cercato di pettinarli in fretta, nella speranza che quell’incubo finisse il prima possibile. Purtroppo per me era solo il prologo.

Nei giorni successivi, complice anche il caldo torrido, li ho tenuti legati e ho dimenticato in fretta l’accaduto. Al secondo lavaggio ho dovuto però riconoscere di avere un problema con i miei capelli. Passavo il tempo a pulire la spazzola e a gettare capelli nel cestino, perché il water era pieno e non scaricava più. È stato lì che mi sono avvicinata allo specchio e ho iniziato a scrutarmi con attenzione e paura. Passato il terrore iniziale, non vedendo buchi o chiazze evidenti ma solo un diffuso diradamento, mi sono rincuorata. Ero contenta di averne persi tantissimi ma in maniera omogenea, praticamente in modo equo su tutta la testa.

Stavolta però non si è fermato con lo shampoo. I giorni seguenti sono stati uno strazio. Un continuo tirare via capelli che si reggevano solo perché incastrati tra gli altri. Avvertivo un prurito sopportabile, perennemente accompagnato però da un leggerissimo senso di tensione sulla cute. Sentivo i capelli tirare e staccarsi. Riuscivo anche ad ascoltarne il suono. Ve lo giuro.

Ho resistito una settimana tra lozioni e detergenti delicati, acquistati nell’anonimato dei prodotti da banco della farmacia, richiesti a bassa voce come se fossero sostanze illegali. Per spiegarmi usavo perifrasi tipo “caduta grave”, “accentuato assottigliamento del fusto”, “indebolimento progressivo dei capelli”. La verità è che li stavo perdendo, uno a uno, inesorabilmente. E che già non ne potevo più.

La perdita

A ogni capello, cadeva anche il mio morale. Ho iniziato a sorridere meno, a piacermi di meno, a essere meno sicura di me. Ero terrorizzata all’idea che gli altri si accorgessero del mio problema e passavo le giornate a legare i capelli in modo da frenarne la caduta in pubblico e a nascondere i primi segni di alopecia. Quando li scioglievo però era devastante. Cadevano tutti insieme e non una decina all’ora (questa era la mia media). Vedevo gli elastici farsi sempre più lunghi rispetto alla mia “chioma” e li rigiravo varie volte per riuscire a tenerla. Coda rigorosamente bassa per nascondere l’attaccatura ormai arretratissima su fronte e tempie e i vuoti intorno alle orecchie e dietro la nuca.

Sono andata da diversi dermatologi e tricologi. La diagnosi sempre la stessa: telogen effluvium. Una caduta copiosa di capelli che si settano tutti nella stessa fase di riposo e poi si staccano in contemporanea dal cuoio capelluto. Un processo, che mediamente dura dai 4 ai 5 anni, avviene nell’arco di circa tre mesi. Non serve aggiungere altro.

Dovevo sentirmi fortunata perché il mio non era un problema patologico, una malattia incurabile con effetti irreversibili. Ero fortunata: i capelli sarebbero ricresciuti perché la cute era sana e non presentava cicatrici. Non vi dico che gioia incontenibile. Piano piano ho iniziato a familiarizzare con altre forme di alopecia, con effetti più gravi a lungo termine ma un impatto meno scioccante dell’effluvio, le quali – mi dicevano – dovevo esultare di non avere. Mi sono fatta una cultura sui capelli. Struttura, ciclo vitale, rapporto con agenti interni ed esterni all’organismo. Bellissimo anche sapere cose di cui non mi sarei mai interessata se non ne fossi stata colpita in prima persona.

Non vedevo la luce, e quella ricrescita tanto sperata mi sembrava sempre più lontana. E io ero sempre più calva. Insieme ai capelli perdevo anche la voglia di affrontare le giornate, di guardare il sole, di uscire con gli altri. Desideravo fortemente trasferirmi su un’isola deserta, dove nessuno avrebbe potuto guardarmi, giudicarmi, compatirmi. E io avrei potuto vagabondare pelata senza alcun tipo di preoccupazione.

La rinascita

È stata l’immagine dell’isola deserta a farmi scattare qualcosa. Nella solitudine l’alopecia non mi faceva così schifo o paura. Il senso di ribrezzo e di vergogna che avvertivo costantemente era un prodotto sociale. E in quanto tale, essendo deleterio per la fioritura e il benessere della mia persona, andava smantellato.

Quando sei calva, per gli altri o sei guerriera o vittima. O sei lì a combattere come un’amazzone contro il cancro e lotti ogni secondo per sopravvivere, oppure sei tanto sfortunata da non avere nemmeno una storia avvincente da raccontare a chi ti guarda. O sei osannata o compatita. I più abili riescono a elogiarti e commiserarti allo stesso tempo. Perdevo capelli senza un motivo, senza una causa specifica, senza infamia e senza lode. La mia fine per la società sarebbe stata ingloriosa in ogni caso.

Non starò qui a enumerare i condizionamenti sociali specifici del genere femminile, delle sovrastrutture patriarcali e maschiliste, delle aggravanti sessiste che pesano su certe teste calve piuttosto che altre.

La calvizie è brutta e difficile. E lo è per tutti e per tutte. Molti uomini vorrebbero comprare parrucche e non lo fanno perché a loro è richiesto di essere machi e non sexy, e una parrucca non è cosa da “maschio alfa”.

Se ne può uscire. Deve esserci un modo per accettare un cambiamento tanto evidente del proprio fisico. Un cambiamento che non mina la salute e che non ci vieta di condurre l’esistenza di prima. Un cambiamento che non ci uccide. Un cambiamento imprevisto e contrario alla nostra volontà, ma non meno di molti altri.

Di cosa dovrei vergognarmi? Della mia fisiologia? Del mio modo di funzionare?

Farò tutto il possibile perché a questo drastico cambiamento estetico non segua un drastico cambiamento esistenziale. Posso accettare di perdere i capelli, non posso accettare di perdere me stessa.

Voglio ritrovarmi. Voglio ritrovarmi in ciò che non mi è stato tolto e in ciò che posso ancora ottenere. La dignità di essere umano non posso permettere che mi venga sottratta. L’identità di una persona non può essere messa in discussione da cellule morte che si staccano dalla sua testa.

Ciò che davvero conta della mia testa non è come appare agli altri, ma come funziona di per sé. E io, scusatemi, ma ho una testa bellissima.

Se una testa bellissima ha bisogno di apparire anche bella agli occhi di chi non ha idea di come essa funzioni e di cosa contenga, allora ben vengano le parrucche, le bandane, i copricapo di ogni genere. Faremo tutto ciò che serve affinché la nostra testa sia messa in condizione di fare il suo dovere. Faremo tutto ciò che serve affinché la nostra testa possa renderci felici. Faremo tutto ciò che serve per non perderci altro di questa vita.

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Meritiamo di più.

Promettiamo a noi stessi di non ridurci più a manichino per parrucchieri.
Promettiamo a noi stessi di non odiarci per non essere (più) come prima o come gli altri.
Promettiamo a noi stessi di non lasciarci sminuire da una società che non è a misura d’uomo né di donna.

Promettiamo a noi stessi di essere noi stessi, in ogni forma e cambiamento.

Non ne sono uscita. Non vi scrivo da un salone estetico dove sto per farmi fare la permanente. E non sono ancora in pace con lo specchio. Quando mi rifletto in una testa spelacchiata non mi sento affatto bella, se è questo che vi preme sapere. Non sono soddisfatta del mio aspetto fisico e spero comunque che nuovi capelli ricrescano e che i vecchi smettano di cadere.

Però qualcosa è scattato. Ora inizio a riavvertire un limite tra la superficie del cuoio capelluto e la profondità della mia mente. Sento che sotto a quella pelle liscia qualcosa ha ripreso – non so nemmeno io come – a funzionare.

Io non sono più i miei capelli. Né quelli perduti, né quelli che perderò.

Sono la bella testa che stanno lasciando scoperta e che posso ricoprire in qualunque momento con quello che voglio.

Non ne sono uscita, ma forse ne sono uscita. E ora respiro.

Non mollate!

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