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Teta Mona: empowerment, creatività e bellezza a ritmo di psych-folk

Teta Mona: empowerment, creatività e bellezza a ritmo di psych-folk

Con Teta ci sentiamo per più di un’ora.
Lei è una cantautrice che suona uno psych-folk contaminato di dubwise.
Più che due intente in un’intervista, sembriamo due amiche che non si sentono da una valanga di tempo, e lo dimostra il fiume in piena di informazioni che ci scambiamo.
Sulla musica. La sua, e quella che ci piace ascoltare.
Su casa, e sui luoghi al di là delle Alpi (lei è pugliese ma ha vissuto a lungo all’estero).
Su Mad Woman, il suo primo LP pubblicato il 20 dicembre scorso e scritto a quattro mani con Prince Jaguar, come lei cresciuto nella murgia tra Puglia e Basilicata.

Dai primi passi tra le note a Mad Woman: qual è stato il tuo percorso?
Ho cominciato quando ero molto piccola, sono andata a scuola di jazz ed ho avuto la fortuna di avere degli amici che avevano un soul system ad Altamura, la città dove sono nata.
Prima di andare in Inghilterra, ho bazzicato la scena dub e reggae, due generi che sono stati vitali in Puglia alla fine degli anni Novanta e inizio Duemila.
Quella cultura mi ha formata tanto, io ero piccola, avevo appena iniziato a conoscere il mondo della musica e ho vissuto appieno il fermento che c’era.
Poi, nel 2003, sono partita per l’Inghilterra e mi sono avvicinata di più alla scena rock, anche grazie al fatto che ho iniziato a suonare in una band con dei ragazzi di Tokyo.
Era il periodo dell’indie, eravamo a cavallo tra analogico e digitale, ed in quegli anni mi sono trovata in un momento assurdo, a Londra, in cui tante culture e mode diverse si stavano incrociando.
In Inghilterra ho vissuto dieci anni, per un certo periodo sono stata anche negli Stati Uniti, ma poi pochi anni fa sono tornata in Italia.
La musica mi ha sempre aiutata, e questo disco, quello che ne è uscito, è la fotografia dei miei ultimi dieci anni.
La scena che ho ritrovato tornando in Italia non è cambiata da quando sono partita, anche se dal punto di vista musicale è cambiato tutto. Lo spirito però non è cambiato. E qui, in Puglia, la cultura è ancora in fermento.

Quando hai iniziato, ma anche ora, hai fatto tutto da sola: canti, suoni, scrivi. Ti occupi della tua musica a 360° gradi. È una scelta o una necessità?
Riuscire a fare tutto da soli è un’arma a doppio taglio.
Ho faticato tanto per realizzare quello che volevo, e non dimentichiamoci che sono donna: questa cosa l’ho subita non poco. Per esempio, quando ho suonato con ragazzi giapponesi, con loro, con i ragazzi neozelandesi dell’etichetta, l’universo maschile ha sempre inciso di più quando apriva bocca. Le donne venivano ascoltate di meno. Era come ci fosse un’incomunicabilità di fondo.
Del resto però non sono l’unica a fare tutto da sola, pensa alla mia amica Beatrice Antolini, ha sempre fatto tutto da sola, e da molto prima di me.
Quando c’è la volontà di far musica, peraltro come è successo a me in un periodo in cui l’indie era sì al suo apice, eravamo sì sull’NME ma in realtà i guadagni erano quelli che erano, fare da soli ed arrangiarsi per continuare superando gli ostacoli diventa una necessità.
La volontà di fare musica ti porta a fare di tutto per non avere bisogno né dipendere degli altri. Mettici poi che siamo calati in una società pazza in cui tutti hanno problemi, le loro cose a cui pensare… la volontà diventa la cosa più importante, insieme a riuscire a farcela.

Ed essere donna non ti ha aiutata…
Anche essere donna è una lama a doppio taglio.
Mi ha aiutata sicuramente essere donna, italiana e piacente, purtroppo però si tende spesso a valorizzare solo l’aspetto esteriore.
Sono una bella donna, ma proprio perché lo sono devo dimostrare il doppio.
Mentre il mio cervello è piuttosto forte tanto quanto la mia fisicità, a tratti maschili, sono cresciuta con esempi di uomini molto forti nella mia vita e ho imparato ad affrontare la vita senza essere debole, seppur io sia una persona, come tutti, con le sue fragilità e le sue timidezze.

In Italia, rispetto a Londra, come ti senti trattata da musicista donna?
Non so ancora, sono qui da troppo poco per dirlo.
So che mi fa piacere che ci siano tante musiciste donne che stanno suonando in giro, e mi rende felice perché è bello vedere donne che suonano e che suonano bene.

Mad Woman, il titolo del disco, significa donna pazza, sei tu?
Mad Woman è un gioco di parole.
Da un lato si ispira ad un episodio che mi è accaduto, dall’imbattermi in un uomo, che mi ha fatta passare con il suo divismo per una pazza, ma non serve fare differenze tra uomo e donna, l’essere divo o diva è un’attitudine, non l’essere maschio o femmina. È un modo di approcciarsi agli altri e metterli in una condizione di soggezione e svilirli.
Dall’altro, fa riferimento alla mia personalità, che è molto bizzarra, e spesso, fin da giovane mi ha portata a farmi affibbiare l’appellativo di pazza, cosa che a volte mi offendeva, ora invece questo mio doppio aspetto mi piace.

I tuoi riferimenti musicali al femminile, invece, quali sono?
Il mio primo approccio con la musica è stato in realtà da piccola, con Bach, mi piaceva molto.
A casa, devo ammettere, sono sempre stata esposta a musica bellissima.
Poi, a undici-dodici anni, negli anni Ottanta, è arrivata Madonna. Mi ha stregata! Negli anni Novanta ho scoperto Suzanne Vega ed il cantautorato: da lì ho iniziato a suonare la chitarra, prima suonavo il piano. Ed in ultimo, mi sono imbattuta in Alanis Morrisette.
C’è anche dire che crescendo e facendo musica, non ho ascoltato solo esponenti della scena internazionale, ma sono stata in contatto con le tante realtà pugliesi di quell’epoca, i sound system, il jazz. E negli anni Novanta, tra le italiane, mi piaceva molto Meg.

Sei stata via tanto dal tuo paese di origine, ripartirai?
Qui sto bene, adesso, forse un giorno sì, ripartirò.
Vivo la vita come viene, e adesso voglio solo andare in tour.

Londra, è rinomata per la sua multiculturalità, il crogiuolo di razze, culture, religioni che ospita. Tu che ci hai vissuto ed ora sei tornata in Italia, in un momento in cui tra l’altro razzismo, intolleranza e odio sono a livelli molto alti, cosa pensi dovremmo importare dal Regno Unito?
Queste sono domande piuttosto difficili, sicuramente l’Inghilterra a differenza dell’Italia ha una storia diversa, veniamo da due mondi diversi, noi siamo l’impero romano con tutta una storia che si ricollega alla religione, una storia che ha diversificato e cambiato soprattutto il sud Italia dal nord.
A livello culturale l’Inghilterra non può essere paragonata all’Italia, ha un’apertura diversa e credo che fenomeni come il rapido cambiamento dell’Europa, la Brexit, favoriscano il ritorno ai propri Paesi di origine di tante persone come me, che sono stata lì per dieci anni, e che si portano appresso un bagaglio di esperienza e cultura che può solo far sperare in una situazione migliore in Italia nei prossimi anni.
Siamo in un periodo confuso, ovunque ci sono problemi, problemi di razzismo, problemi relativi all’integrazione. In Italia lo abbiamo vissuto già anni fa con l’immigrazione dall’Albania ed oggi viviamo la stessa situazione e lo stesso sentimento nei confronti di altri popoli.
Ma io non smetto di sperare in una realtà multiculturale in cui si abbattono tutti i pregiudizi. Il pregiudizio fa male.

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Quali sono i consigli che daresti a una ragazza che vuole iniziare a suonare?
Di sviluppare le sue qualità peculiari, la sua unicità.
E credere in se stessa, trarre dai momenti più difficili la forza necessaria per non mollare mai.

E coverizzare Mina? Come ti è venuta l’idea? Ci vuole coraggio a riarrangiare un brano suo!
(ride)
Quella canzone, Whisky (primo singolo estratto da Mad Woman n.d.r.) è nella colonna sonora di “Urlatori alla sbarra”, film in cui c’è una giovanissima mina ed un altrettanto sbarbato Celentano, erano i primi anni Sessanta e quello era un periodo in cui l’Italia era all’avanguardia nel jazz, e nel film, tra l’altro, c’è anche Chet Baker!
Quando ho scoperto questa pellicola, sono stata così orgogliosa del periodo che stava vivendo il nostro paese.
E ho scelto di fare una cover del brano perché volevo omaggiare lei, e variare un po’ rispetto al solito inglese, in cui mi cimento cantando in italiano.

Tu sei molta bella, eppure, a differenza di molte artiste che sfruttano il proprio corpo e lo espongono spesso poco vestito sulla copertina dei loro album, quella di Mad Woman e dell’ep precedente ritraggono te, ma non in un ritratto per così dire, canonico.
Perché voglio che si veda altro rispetto all’aspetto fisico. Voglio evidenziare la mia follia creativa, il mio doppio.
Io poi dipingo e ci tenevo a mostrare sulla copertina le mani porche di colore dopo aver appena finito di fare il disegno che c’è sopra la mia testa sul muro.
Un disegno che ho fatto perché mi sentivo spontaneamente di fare qualcosa, qualcosa di irripetibile che rimanesse senza preoccuparmi di cosa rappresentasse.

Data la tua esperienza su entrambi i fronti, qual è la differenza del suonare in una band al femminile rispetto al suonare in una con solo uomini?
Dinamiche e approccio. È come essere a scuola in un gruppo di lavoro misto.
Si usa un linguaggio diverso: ci si rivolge sempre a qualcuno del proprio sesso in un modo diverso da quello che fai con un uomo.
È l’empatia che c’è che è diversa.

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