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#ThisDoesntMeanYes: abbiamo intervistato le 4 ragazze che hanno sfatato il mito del ‘te lo sei cercata’
Dark Light

#ThisDoesntMeanYes: abbiamo intervistato le 4 ragazze che hanno sfatato il mito del ‘te lo sei cercata’

C’è un mito che gira attorno alle donne, coinvolgendole loro malgrado: tutte quelle che attraggono l’attenzione, sia per via del vestiario sia per il loro comportamento, tutte quelle che si comportano in modo un po’ provocante, che flirtano o parlano apertamente di tematiche sessuali, ecco, proprio loro, sono tutte donne che ‘se la sono andata a cercare’. Questa cosa che se la sono andata a cercare è una storiella ingannevole e infida, e bisogna smettere di dirla e pensarla. Nessuno dovrebbe poter incolpare una minigonna per uno stupro, perché una minigonna non può parlare, non può dire ‘sì, ci sto’.
Ogni donna ha il diritto di esprimersi liberamente. E nessuna donna merita di essere stuprata per questo.

Questa dichiarazione, di grande impatto, fa parte di un manifesto dai toni ancora più perentori che è a sua volta il punto cardine di un progetto il cui scopo è quello di sfatare un mito estremamente pericoloso che vede le donne colpevoli dell’essere stuprate a causa del loro abbigliamento o atteggiamento.

Dietro a questo progetto, chiamato simbolicamente #ThisDoesntMeanYes (questo non significa sì), ci sono quattro giovani donne e una fotografa di fama internazionale, PEROU. Questa iniziativa, sostenuta dal Rape Crisis Centre di South London, ha portato quasi 200 donne a mettersi in posa davanti alla macchina fotografica di PEROU, che sapientemente ha saputo cogliere la loro vera essenza. Quasi 200 foto, insomma, in ognuna delle quali l’abbigliamento mostrato varia visibilmente: c’è chi indossa felpone larghe, chi dei crop-top e chi ancora un vestitino o dei pantaloni attillati. Tutte foto e donne diverse, unite però da un unico grido, ben visibile in ogni foto: This Doesn’t Mean Yes – questo non significa io ci stia, non significa sì. Nessuna gonnellina corta, nessun sorriso e tantomeno nessuna maglia scollata hanno voce in capitolo. Nessuna scollatura ha la facoltà di dire sì, solo chi la indossa la ha.

ita

Non molto tempo fa, mentre stavo aspettando l’autobus che mi riportasse a casa, ho subito notato quattro ragazzi che erano con me sulla banchina. Il gruppetto era formato da due ragazzine e due ragazzini. Stavano raccontando un aneddoto recente che riguardava un’altra ragazza, probabilmente una compagna di classe. Ecco, secondo loro, tale ragazza si era vestita ‘da zoccola’ per una serata fuori. A quanto pare, nella stessa serata, un ragazzo le si era avvicinato, ballando dietro di lei, toccandola e provando a baciarla, per poi chiederle di uscire. La risposta della ragazza è stata ‘no’. Mentre raccontavano questa storiella, i quattro amici hanno trovato subito un punto d’incontro: se ti vesti così (ancora adesso non ho idea di cosa intendessero per così), meriti di essere toccata o baciata contro il tuo volere, perché vestirsi così provoca gli uomini.

Non era la prima volta che simili abomini giungessero alle mie orecchie, ma questa volta sono rimasta particolarmente sorpresa, e non in senso buono, perché quei ragazzini erano davvero piccoli. Avranno avuto al massimo quattordici anni e tutti, specialmente le ragazzine, credevano fermamente al fatto che se ti vesti in un certo modo, ‘allora te la cerchi’.

Una volta sull’autobus, ho iniziato a pensare a tutti quei miei conoscenti, giovani donne e uomini (che spesso si vantano di avere buona istruzione e una mentalità aperta), che: ‘certo che penso lo stupro sia una cosa brutta! Però ecco, non lamentarti poi tanto se un uomo pensa che tu voglia fare sesso con lui. Dai, guarda come sei vestita!’. Ecco, tutto ciò è tremendamente sbagliato.

Giunta a casa, mentre ero intenta a rilassarmi sul divano smanettando su Facebook, una mia conoscente (questa volta di quelle buone) ha condiviso sulla sua bacheca un hashtah. Era proprio l’hashtag del progetto #thisDoesntMeanYes ed io l’ho preso un po’ come un segno del destino. Incuriosita, ho fatto quindi delle ricerche su internet, trovando subito il loro sito. Ho quindi deciso di scrivere loro un’e-mail, che ha trovato subito risposta. Ecco il nostro breve scambio epistolare:

1) Buongiorno! Partiamo dall’inizio: chi siete, da dove venite e come mai vi conoscete?
I nostri nomi sono Nathalie, Lydia, Abigail and Karlie. Siamo tutte e quattro amiche, e lavoriamo nel settore dell’industria creativa (pubblicità, illustrazione, editoria), abitiamo a Londra e siamo tutte sotto i 28 anni. Tre di noi hanno lavorato insieme per un certo periodo, ma comunque tutte e quattro ci conosciamo da circa due anni.

2) Quando e perché avete iniziato questa campagna?
L’idea è venuta fuori in seguito a un incidente spiacevole accaduto in un nightclub: un uomo si era girato verso una nostra amica e le aveva detto che, per via di come era vestiva, lui aveva capito che lei ‘se la stesse cercando’. Tre di noi hanno amiche che hanno subito violenze e/o stupri, ed è stato allora che abbiamo pensato dovessimo agire, far qualcosa. Nessuno può pensare di essere in grado di capire se una persona voglia o meno dare il suo consenso a fare sesso in base a come sia vestita.

3) Qual è stato il momento più commovente?

Il momento più toccante è stato quando ci è stato detto che una donna, che era stata vittima di uno stupro, aveva grazie alla nostra campagna ritrovato una ragione per alzarsi e vestirsi la mattina.
Ne siamo state onorate. Nessuna parola può descrivere quanto queste storie significhino per noi. Ci sono state inviate centinaia di e-mail, da tutto il mondo, nelle quali donne che erano state stuprate o avevano subito violenze ci ringraziavano per il lavoro svolto. È di grande ispirazione ascoltare cosa abbiano provato e vissuto queste donne.

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4) Cosa diresti a quelli che non credono esista una rape culture?

Beh in realtà non credo ci sia una rape culture, nel senso, non credo che ci sia una cultura che porti a stuprare. C’è una cultura che porta a colpevolizzare la donna per quello che le è successo, e questa cosa deve assolutamente finire. La responsabilità di quello che è successo va data all’aggressore, non alla vittima. Ad esempio: se rubassi una torta in una pasticceria, non mi sarebbe di certo permesso andare in tribunale a incolpare il pasticcere per averla fatta così buona e deliziosa; non avrei dovuto rubarla punto e basta. Dovrebbe valere lo stesso anche in casi di stupro. Bisogna smetterla di colpevolizzare la vittima.

4) Obiettivi futuri?
La prossima settimana ci siederemo tutte quante al tavolo per parlare di cosa succederà. Abbiamo un sacco d’idee e vorremmo assolutamente continuare quanto iniziato. Il supporto che stiamo ricevendo è enorme. È un periodo molto emozionante, ed è solo l’inizio.

Bene, andiamo con ordine adesso. La prima cosa, che poi è anche quella più importante, è che dovremmo tutti, uomini inclusi, essere grati a quattro ragazze.
Dal canto mio, invece, vorrei dedicare questo pezzo a tutte quelle persone che hanno pensato, anche solo per un secondo, che una donna dovesse smetterla di lamentarsi di essere stata stuprata o molestata perché se l’era cercata. Se qualcuno commette un crimine – perché siamo tutti d’accordo sul fatto che lo stupro sia un crimine, vero?- l’unica persona da colpevolizzare è il responsabile dello stesso, non la vittima.

 

Illustrazione di Costanza De Luca

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