Articolo di Alice Picco
Anche nel giorno della Festa della Liberazione si può parlare di donne, eccome se ne si può parlare.
Infatti, a partire dall’annuncio dell’armistizio di Cassibile, l’8 settembre 1943, nelle case italiane tante donne hanno deciso di soccorrere i prigionieri e i militari allo sbando: questo si può considerare come il primo atto di resistenza femminile al regime fascista.
In molte si unirono per formare squadre di primo soccorso per aiutare ammalati e feriti, per contribuire alla raccolta di vestiti, medicinali e cibo; le donne si occuparono dell’identificazione dei cadaveri e dell’assistenza alle famiglie dei caduti. Le ragazze più giovani, come la protagonista di questo articolo, diventarono staffette, con il compito di garantire i collegamenti tra le diverse brigate e mantenere i contatti tra i partigiani e le loro famiglie. Altre donne ancora combatterono direttamente in prima fila, armi alla mano.
Secondo i dati dell’ A.N.P.I (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) furono 35.000 le donne partigiane combattenti, 70.000 fecero parte dei gruppi di difesa per la conquista dei diritti della donna. 4653 donne furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania, 2812 furono fucilate o impiccate, 1070 caddero in combattimento. Nel dopoguerra 19 donne vennero decorate della Medaglia d’oro al valor militare.
Eppure, nonostante nella Resistenza italiana le donne abbiano rappresentato una componente fondamentale, per molti anni il loro ruolo è stato messo da parte.
Oggi, in questo giorno importante, voglio parlarvi di Francesca Edera De Giovanni, la prima donna della Resistenza italiana a finire davanti ad un plotone d’esecuzione.
Edera, nata a Monterenzio, in provincia di Bologna, il 17 luglio 1923, cresce in una famiglia di antifascisti e antifascista rimane per tutta la sua breve vita. Fin da bambina aiuta la madre nelle faccende domestiche e il padre, mugnaio, nel trasporto della farina. I suoi studi si interrompono in quarta elementare, e in seguito si sposta da Monterenzio per andare a servizio presso una facoltosa famiglia bolognese, presso una di quelle signore imbellettate a cui voleva tanto assomigliare. Nel paesello non c’è possibilità di lavoro, i fascisti non si curano di nulla se non del proprio benessere ed Edera, seppur ancora molto giovane, inizia ad intuire che qualcosa non va.
Edera ritorna a casa in un’occasione triste, la morte della madre, ed è allora che, anche grazie a lunghe conversazioni con il padre, si rende conto che è necessario farsi una nuova coscienza, più aperta, e che sarebbe di lì a poco giunto il momento di combattere per un diritto, per un miglioramento. Miglioramento che però non sarebbe mai venuto dal regime, ma dalla massa del popolo che non ha mai avuto nulla se non guai e angosce.
È così che Edera comincia il suo lavoro di propaganda antifascista, inizialmente guardinga, poi sempre più ardita, tanto che, con il fascismo ancora imperante, non esita a polemizzare pubblicamente con un gerarca del suo paese d’origine. Si trova in un’osteria e, fumando una sigaretta (una donna che fuma una sigaretta in pubblico portando anche un paio di pantaloni, poi!), si avvicina ad un impiegato comunale e, indicando la camicia nera che porta sotto la giacca, gli chiede sarcasticamente se non si vergogna a portare una camicia così sporca e si offre di lavarla lei stessa al fiume per poi restituirgliela pulita.
A causa di questo fatto, Edera viene arrestata e interrogata dai carabinieri, davanti ai quali ammette di aver effettivamente pronunciato quella frase, ma in tono scherzoso, dal momento che la camicia era sporca. Viene incarcerata e dopo due settimane viene diffidata e liberata.
Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approva un ordine del giorno che prevede l’estromissione di Mussolini dal governo del Regno d’Italia. Il re Vittorio Emanuele II ordina il suo arresto provocando così la fine del ventennale regime fascista e affida il governo al maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.
Il fascismo, quindi, cade di colpo, ma per poco. Le camicie nere ben presto ritornano più agguerrite di prima, pronte a sterminare senza pietà, questa volta assistite dai tedeschi.
Prima ancora che la Resistenza si organizzi, insieme ad altri giovani di Monterenzio Edera impone alle autorità del paese che il grano ammassato nei depositi venga distribuito a tutta la popolazione. Ormai è pronta e capace per la lotta, quindi si mette in azione per costituire la prima squadra di partigiani, che su suo impulso avrebbero poi costituito la 36a Brigata Garibaldi, e con essa entra in azione. Ciò che la squadra compie è tanto importante quanto rischioso: taglia i fili della linea del telefono e del telegrafo che collegava Roma al Brennero e a Berlino, bloccando così, almeno temporaneamente, le comunicazioni dell’Asse.
Edera diventa sempre più coraggiosa, ripensa ai primi tempi in cui ancora qualche brivido di paura le percorreva la schiena. Ma ora no, ora è pronta a tutto, con l’ardore dei suoi vent’anni.
Purtroppo, però, il suo giovane coraggio viene travolto da una delazione, che diventa la sua condanna a morte.
Il comando partigiano ha deciso che Edera, insieme ad altri cinque compagni, tra cui c’è anche Egon Brass, il suo fidanzato, deve partire per passare in un’altra formazione. L’ordine è quello di radunarsi la mattina del 25 marzo 1944 in Piazza Ravegnana, a Bologna, davanti alla bancarella di un venditore di penne stilografiche, anche lui partigiano, che avrebbe dovuto dare la parola d’ordine e preparare il gruppo alla partenza. I sei si avvicinano alla bancarella separatamente per non dare nell’occhio, ma una spia aveva già agito e all’improvviso i giovani si trovano circondati da un gruppo di brigata nera.
Tutti e sei vengono arrestati e rinchiusi nelle carceri di San Giovanni in Monte. Edera viene torturata per un giorno intero, ma non si lascia sfuggire nessuna informazione e non dà ai suoi carnefici la soddisfazione di vederla piangere.
A questo punto, Edera e i compagni catturati con lei vengono letteralmente gettati su un camion e portati dietro la Certosa, dove un plotone è pronto per la fucilazione.
Tuttavia, la giovanissima Edera, nonostante sia ben consapevole di essere in punto di morte, decide di compiere un ultimo atto di ribellione: si volta per guardare in faccia coloro che le stanno per togliere la vita ma soprattutto perché loro guardino lei. E con tutto il fiato che le rimane in corpo dopo le torture grida: “Tremate. Anche una ragazza vi fa paura!”.
Poi arriva la scarica di pallottole, dritta nel petto.
Insieme ad Edera De Giovanni, quasi ventunenne, vengono fucilati i partigiani Egon Brass, Ettore Zaniboni, Enrico Foscardi, Attilio Diolaiti e Ferdinando Grilli. È il primo aprile 1944.
La storia di Edera De Giovanni, insieme a quella di tante altre donne della Resistenza, ci racconta non solo il coraggio di una ragazza che fin da giovanissima aveva compreso quale fosse “la parte giusta” della storia, la parte che era giusto seguire, ma anche la sfrontatezza di chi aveva scelto di sfidare a viso aperto la tradizione, la moralità femminile della società patriarcale contadina e il regime fascista.
Edera aveva deciso di non restare nel ruolo subalterno previsto per le donne, aveva deciso di brillare.
Volevo chiederti se sai da dove viene la foto delle ragazze che si abbracciano con la spilla sui loro cappotti, la prima foto che hai postato. E’ una foto che si trova facilmente online in vari siti che parlano di donne nella resistenza, ma nessuno cita la fonte, chi siano quelle donne e in che occasione la foto sia stata presa, ne’ l’anno in cui questa foto e’ stata presa. Se ne sai qualcosa fammi sapere!