Clio Colombo e Martin Nicastro sono Clio and Maurice, un duo sperimentale contaminato tanto dal soul di Nina Simone quanto dall’ipnotico pop di Björk. Formatosi nel 2017, è composto da voce e violino. “Fragile”, il loro ep, è stato scritto e registrato nell’arco di quasi due anni e rappresenta diversi momenti del loro percorso di vita personale e professionale.
Con loro, abbiamo parlato di emozioni, equilibri, di viaggi e diversità. E ovviamente della loro musica.
Com’è nata la sinergia tra voi? In cosa vi sentite particolarmente simili e su cosa siete anni luce differenti?
Martin: La nostra sinergia precede in realtà di molto tempo l’inizio del progetto. Eravamo una coppia da circa 4 anni quando abbiamo deciso di provare a suonare insieme. Non avevamo la più pallida idea di cosa sarebbe uscito fuori, se sarebbe durata oppure no. Alla fine abbiamo scoperto che quelle cose che ci hanno tenuto insieme per tanti anni ci avvicinavano molto anche musicalmente, compresa la capacità di capirci e di accettarci per come siamo. Potremmo dire che siamo quasi complementari, ma parlare di sé è una cosa estremamente difficile e non saprei dire precisamente in cosa senza essere approssimativo.
Musicalmente quali sono gli/le/* artist* che vi accomunano e ispirano il vostro duo?
Clio: Anche se facciamo ascolti abbastanza diversi abbiamo le idee chiare su chi prendere come riferimento per il duo. Ci ispiriamo a una serie di nomi, come Björk, FKA Twigs o James Blake, che sono riusciti a mettere insieme pop e sperimentazione, ad aprire nuovi mondi sonori senza perdere la capacità di emozionare i propri ascoltatori.
“Fragile” è uscito poche settimane fa: come descrivereste in tre parole il disco? Qual è la vostra canzone preferita dell’album? E quella che consigliereste di ascoltare a una persona che non vi conosce come se fosse un biglietto da visita?
Martin: Direi emotivo, introspettivo e istintivo. C’è stato del lavoro di fino a posteriori, ma scrivere gran parte dei brani è stato come tuffarsi a occhi chiusi per poi scoprire un mondo di cui ignoravamo l’esistenza.
Clio: È difficile dire quale sia la nostra preferita perché ogni pezzo occupa uno spazio diverso all’interno del disco, come se fossero complementari. Il biglietto da visita dipende anche dai gusti e dagli interessi di chi hai di fronte! Comunque il pezzo più completo e rappresentativo del disco è probabilmente “Faithfully”.
“Fragile” già dal titolo apre una finestra su tutta quella parte di noi stessi che spesso si ha paura di mostrare o che noi stessi temiamo. In cosa vi sentite fragili da un punto di vista umano e in cosa, in riferimento alla vostra professione, in quanto musicisti? Come in questi mesi in cui le vite quotidiane e contestualmente la possibilità di reagire, gestire le proprie emozioni e i propri stati d’animo, avete fatto i conti con i vostri “punti deboli”? La musica che ruolo ha avuto e sta avendo durante il lockdown di marzo e durante quello attuale?
Martin: Quando parli di “aprire una finestra”, ti avvicini molto a quello che ha significato per noi scrivere queste canzoni. Cresciamo tutti in un contesto che ci educa a mostrarci sempre forti, vincenti e invincibili, portandoci a mascherare le nostre vite per quello che realmente sono, perché siamo spinti ad avere vergogna dei nostri fallimenti (o almeno di ciò che viene ritenuto un fallimento in una società neocapitalista). Con questo disco abbiamo cercato di trovare forza nella nostra fragilità sia umana sia professionale, specie considerando la scelta di fare pop sperimentale in lingua inglese in un contesto come quello dell’Italia di oggi.
Clio: La pandemia ha avuto un effetto devastante su un progetto come il nostro, ancora in una fase di crescita. Siamo passati da suonare almeno un paio di volte al mese e spesso viaggiando molto lontano da casa a non fare più concerti. Abbiamo cercato di reagire al meglio e in realtà da un punto di vista emotivo e creativo è andata e sta andando molto bene: abbiamo approfittato di questo isolamento involontario per concentrarci sullo studio e sulla scrittura di nuovi brani. Nel corso di questo secondo lockdown, stiamo quasi per finire di scrivere un nuovo disco.
Qual è la genesi di un vostro brano? Qual è l’iter che seguite per gli arrangiamenti? E delle liriche chi si occupa? Da cosa vi fate ispirare per i testi?
Martin: Solitamente partiamo sempre da un’idea musicale che mi viene in mente in maniera estemporanea al violino o al pianoforte e che registro al cellulare per non dimenticarmela. Poi, dopo averci lavorato al pc e aver impostato un’idea di arrangiamento, si inserisce Clio, che scrive la parte vocale con un testo ancora accennato. A questo punto interviene il nostro produttore, Giuliano Pascoe, che incomincia a lavorare sui suoni, spesso a partire da parti di violino già definitive registrate in studio.
Clio: Dei testi mi sono sempre occupata io, perché ci è sembrato fin da subito naturale che chi si occupasse della linea vocale scrivesse anche le parole. Spesso le prime parole e l’argomento di un brano nascono insieme alla melodia della voce in una sorta di improvvisazione. Poi in un secondo momento li arricchisco scrivendoli su carta. In questo disco ho preso spunto soprattutto da un periodo specifico della mia vita che si stava concludendo proprio quando abbiamo cominciato a scrivere i nostri primi brani. Nella scrittura cerco di essere il più possibile diretta nel significato e mi faccio guidare dall’istinto e dalla musicalità del linguaggio piuttosto che da riferimenti poetici o letterari: per noi la cosa più importante è che ritmo e sonorità dei testi vadano di pari passo con la loro trasparenza emotiva.
Avete suonato all’estero, tra Marocco ed Europa: è differente il modo di approcciarsi alla musica live del pubblico straniero? Se sì, come? In che modo viaggiare, entrare in contatto con nuove culture e modus operandi differenti, a livello musicale e umano vi ha arricchiti?
Clio: Sì, solitamente la differenza c’è. In Italia chi si occupa o frequenta il mondo della musica live – musicista, spettatore o addetto ai lavori – vive in trincea, ai margini della società e senza alcun tipo di sostegno. La disparità nel trattamento della musica rispetto ad altri campi della cultura è sempre più palese nel nostro Paese, ed è una cosa con cui ti confronti quando suoni all’estero.
Martin: Suonare lontano da casa è un’esperienza straordinaria perché ti permette di abbandonare tutta una serie di preconcetti e di scoprire moltissime cose su te stesso e sulla tua musica. È un po’ come avere davanti un pubblico di ascoltatori “puri”, che non avendo idea di chi tu sia si confrontano direttamente con il suono e le parole. In Marocco per esempio tutto ciò era ancora più forte: le distanze erano più grandi e la curiosità reciproca fortissima.
La vostra musica è una contaminazione di diversi generi. Come riuscire a far convivere in un unico disco input e suggestioni differenti distanti anche tra loro? E come questa semplicità che ha la musica di trovare un equilibrio e una fusione tra diversità, creando un’armonia e un bilanciamento, si può imparare ad attuare nella vita di tutti i giorni in cui ancora oggi spesso ci sono episodi lontani dall’inclusione e dalla convivenza del diverso?
Martin: Credo fosse Mozart ad aver detto che se tutta l’umanità avesse la possibilità di conoscere come suoni diversi si uniscano nell’armonia musicale il mondo sarebbe un posto migliore. È senz’altro giusto quello che dici, e la musica può essere un modello di inclusione della diversità, ma essendo in definitiva anche uno specchio della società che la produce è vero anche il contrario: la musica può anche essere uno strumento di appropriazione e manipolazione dei più deboli o degli emarginati. Credo che la sfida oggi, come in molte altre cose, sia cercare di capire la differenza tra le due tipologie e non aver paura di schierarsi di conseguenza.