Articolo di Rachele Agostini
Vi è mai capitato di trovarvi nel corridoio di un ospedale, in attesa di notizie sulla salute di qualcuno che amate? Immagino di sì.
I più sfortunati tra voi si saranno trovati anche dall’altra parte, in condizioni più o meno gravi.
In entrambi i casi ricorderete l’angoscia, la paura, il desiderio di vedere quel volto amato che prende il posto di ogni vostro pensiero.
Se però vi trovate in Italia ed il possessore di quel volto è il vostro compagno/a, ed ha la sfortuna di essere del vostro stesso sesso, ricorderete anche la rabbia.
Già, perché la Legge del nostro Paese, ad oggi, non consente ad un uomo che viva con un altro uomo o ad una donna che viva con un’altra donna la possibilità di prendere decisioni e fornire assistenza nell’ambito della salute.
Il caso recentissimo di Giovanni Scialpi ne è un perfetto esempio: quando il cantautore – conosciuto al pubblico italiano come Shalpy – è stato recentemente ricoverato per problemi cardiaci che hanno poi richiesto un piccolo intervento, Roberto Blasi, suo manager ma soprattutto suo compagno di vita, è stato tenuto all’oscuro delle condizioni del marito.
Roberto, non essendo un parente, non è stato informato dai medici di quello che accadeva. [..] il mio compagno, la persona più importante della mia vita, per lo Stato non ha diritti e non decide.
Lo Stato Italiano rifiuta infatti di riconoscere la loro unione, contratta a New York lo scorso agosto (e per la quale Shalpy aveva anche chiesto in una lettera la benedizione, mai concessa, di Papa Francesco).
L’intervista realizzata a Shalpy da Silvia Fumarola per Repubblica, gli sfoghi di Blasi sui propri social e l’intervento della coppia in una recente puntata di Porta a Porta, cercano di attirare l’attenzione su una situazione a dir poco vergognosa, che coinvolge troppe persone da troppo tempo: proprio pochi giorni fa è arrivata la conferma da parte del Ministro Boschi che il decreto sulle Unioni Civili sarà ulteriormente posticipato, sembrerebbe in ragione delle pressioni da parte di NcD in merito alla stepchild adoption.
Solo qualche mese fa la Corte Europea dei Diritti Umani aveva condannato formalmente il Governo, sottolineando quanto fosse importante accelerare le Leggi in merito al riconoscimento delle Unioni Civili, e la risposta del suddetto Governo è stata rinviare per l’ennesima volta (forse alla fine di quest’anno, forse all’inizio del prossimo) un decreto che secondo le promesse originarie sarebbe dovuto entrare in vigore alla fine di questa primavera.
Purtroppo il problema è sempre lo stesso: l’Italia antepone il credo personale ai diritti universali.
Se la maggior parte dei nostri politici è convinta che non sia “giusto chiamare famiglia un’unione diversa da quella tra un uomo e una donna” non significa che un intero Paese in cui – che a loro piaccia o meno – queste situazioni sono delle realtà, debba rimanere bloccato su questioni PRIMITIVE come il diritto di dare e ricevere conforto nel momento del dolore.
Non c’è fede religiosa o storia personale che possano giustificare l’attuale stato delle cose, soprattutto perché la politica (quella vera) prevede che queste vengano messe da parte in ragione degli interessi della collettività.
A rendere ancora più ridicolo il tutto, peraltro, vi è il fatto che – come lo stesso Shalpy afferma nell’intervista – riconoscere questi diritti va al di là dell’orgoglio gay, perché coinvolgerebbe anche coppie dello stesso sesso che convivono per ragioni lontane dai legami sentimentali (come “due vedove che vivono insieme o due amici anziani che dividono le spese di casa”).
In un periodo storico in cui persino la cattolicissima Irlanda e la repubblicanissima Georgia consentono a gay e lesbiche non solo di identificare il proprio amore con la parola matrimonio, ma anche di adottare figli, noi ci troviamo qui.
A vivere in un Paese che temporeggia sulla concessione di un diritto talmente minimo, che in confronto vedersi negare la possibilità di adottare è un lusso.
Un Paese in cui un gruppo troppo vasto di persone che hanno paura di accogliere le differenze infetta l’idea di bene comune, penalizzando gravemente nel processo più di una categoria di persone.
Che siate inclusi in queste categorie o meno importa poco: l’unica cosa che possiamo fare come popolo per cercare di aggiustare le cose è continuare a raccontare a più gente possibile storie vere, come ad esempio quella dell’amore fra un cantante ed il suo manager, impedendo al silenzio di togliere importanza a queste battaglie e a queste persone.