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Vado in terapia e non riesco ad accettarlo
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Vado in terapia e non riesco ad accettarlo

“Io ce la faccio da sola.”
È la frase che per anni mi sono ripetuta come un mantra, jai guru autosufficienza om.

Non ho ancora capito quale fosse la ragione, se volessi atteggiarmi a Wonder Woman che gestisce tutto senza chiedere mai aiuto perché è forte e indipendente, o se avessi paura di stare facendo “tante storie per niente”, se stessi insomma minimizzando i miei problemi perché “al mondo c’è gente che soffre davvero”. Temo un mix delle due cose.

La prima emozione con cui ho dovuto fare i conti è stata infatti la sensazione di debolezza per aver chiesto una mano. Qui (in Italia, in Europa, nel mondo) ti dicono che se non ci riesci con le tue forze sei un fallito, che i vincitori sono quelli che si fanno da soli, quelli che hanno un obiettivo e lo raggiungono e che passano sopra ai problemi come fossero un cingolato. Lo dicono soprattutto agli uomini ma siccome dicono a noi donne che gli uomini sono superiori, per sentirci parte dell’élite finiamo per scimmiottare gli stessi comportamenti, comprandoci gli stessi vincoli.
Alla prima seduta con la mia terapeuta mi sono presentata come se dovessi andare a un evento di gala, era estate, avevo un bel vestito rosso, i capelli in piega nonostante il caldo, un rossetto acceso. Volevo che tutto di me dicesse “comunque io non ne ho bisogno”. Volevo apparire sicura di me, realizzata, a posto, qualsiasi cosa voglia dire essere a posto…
Ci ho messo tre sedute per darle del tu e farmi dare del tu, volevo mantenere una distanza di forma per confermare la lontananza emotiva. La terza seduta è stata anche quella dove ho pianto per la prima volta di fronte a lei e ancora faccio fatica a perdonarmelo. Non solo ho chiesto aiuto ma ho manifestato un mio disagio davanti a una sconosciuta, rendendomi vulnerabile. Cosa direbbe di me l’Irene Wonder Woman che sento di essere?

La seconda emozione forte che ho sentito da quando ho cominciato la terapia è il disagio.
Disagio nel dire ad alta voce le cose che mi fanno stare male. Non per pudicizia, i cavoli miei li racconto senza problemi (sono un’esibizionista in fondo), ma perché non riesco ancora a legittimare il mio dolore. Penso sempre di stare facendo storie per delle piccolezze, mi vergogno di non avere “problemi veri” per cui stare male. È come se non ci fosse posto per il mio dolore nel cassetto delle cose ragionevoli. Tutte le situazioni di cui mi lamento sono situazioni dove mi sono cacciata da sola. Tutte le cose brutte che mi accadono, accadono per mano mia. Vivo per sabotare la mia felicità, e siccome sono molto brava a farlo mi accartoccio sull’idea che la terapia non mi serva perché mi basterebbe smettere di essere una testa di cazzo ed ecco qui che l’avremmo risolta.

Ogni seduta è una battaglia.
Ogni seduta devo combattere contro la voce che mi dice che è inutile.
È inutile perché “tanto io mi conosco, me li risolvo da sola i problemi”, è inutile perché “nessun terapeuta sarà in grado di farmi smettere di essere un’idiota”.

Ciò che rende il tutto ancora più terrificante, è che ho una laurea in psicologia.
Voglio dire, questo dovrebbe bastare a farvi capire quanto io creda nel potere della relazione.
Io di lavoro aiuto le persone a comprendere l’importanza della comunicazione e dell’avere qualcuno disposto ad ascoltarci in maniera empatica. Se penso agli altri, la terapia mi sembra sempre una buona idea. Soprattutto per quelli che dicono di non avere problemi, perché statisticamente li hanno ma non ne sono ancora consapevoli. So che può fare paura e so che può mettere in soggezione, ma penso ne valga sempre la pena.

Eppure.

Eppure la difficoltà che provo nel dire a me stessa (e non agli altri, è importante che sia chiara questa cosa) che vado in terapia, è ancora quasi insormontabile.

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Perché lo sto scrivendo?
Perché so che ci sono persone che mi staranno leggendo che si sentono come me e che per questa ragione stanno ben lontane da qualsiasi psicologo.
Non starò qui a dire che dovete andare oltre, superare queste convinzioni e provarci lo stesso, perché prescrivere i comportamenti è inutile e pure antipatico.
Sto scrivendo queste parole perché io avrei bisogno di leggerle.
Avrei bisogno di sentirmi dire che sì la terapia è una cosa normalissima e fa bene e tutti dovrebbero andarci MA tu, tu che ti conosci e ti descrivi come un essere granitico e infallibile, che vai in terapia è una merda. O meglio, può essere una merda.

Io invidio, invidio da morire tutte quelle persone che vanno in terapia e sono serene mentre fanno il tragitto. Invidio quelle che parlano del loro percorso con una luce chiara negli occhi. Credo a tutte le loro parole e sono sinceramente felice per loro.

Queste parole invece sono per quelle che hanno paura.
Paura di non riconoscersi più, di doversi dire che non sono invincibili, di doversi ascoltare davvero sapendo che sentiranno cose spiacevoli.

So che ci siete, so che ci siamo.
Ho capito che il primo passo è dirselo e provare a legittimare questo disagio (lo so, non riuscirci è parte del problema).
Ironicamente, andare in terapia è un buon modo per accettare l’idea di andare in terapia.
È una specie di Inception, dove parlare dei miei problemi mi aiuta a rendere tollerabile il fatto che io stia parlando dei miei problemi.
In mezzo ci sono io, nel ruolo della trottola. Che continuo a dirmi che forse non me lo merito, che non ne vale la pena, che sto facendo storie per nulla.
Ma vado avanti, perché voglio proprio vedere se la smetto.
Voglio vedere se mi fermo.

Photo by Jake Noren on Unsplash
View Comments (3)
  • Questo articolo mi ha commosso molto per due ragioni distinte:

    1. io stesso vado da uno psicologo ogni tanto e lo faccio quando sento di aver bisogno di parlare di alcuni miei dubbi e problemi con qualcuno che mi ascolti e cerchi di capire senza utilizzare frasi fatte o dire “massì non pensarci”, “vedrai che passerà”, “quante storie” ecc. Personalmente mi sento il contrario di te perché quando vado mi sembra di “sfruttare” lo psicologo riversandogli addosso le mie debolezze e cercando una conferma nelle sue risposte. La cosa che più mi terrorizza infatti è che la sua risposta faccia crollare le mie certezze perché vorrebbe dire (nella mia testa) che tutto l’impegno e il cuore che ci metto per le cose in cui credo sia inutile o mal riposto. Come dici la società rappresenta gli uomini come forti ed incrollabili, ma io mi sento proprio l’opposto, anche perché il 99,99% delle volte non so quello che faccio, mi butto e cerco di fare quello che mi sembra sia la cosa giusta. Per questo ho veramente tanto bisogno di conferme ogni tanto, perché non ho un metro per capire che ciò che faccio è giusto, sbagliato, o potrebbe essere fatto meglio (sicuramente). Non riesco ad immaginare qualcuno che percorra sereno il tragitto per andare in terapia, perché se ci vai vuol dire che hai qualcosa dentro che ti preme e non riesci più a contenere, magari non lo ammetti a te stesso, ma è così.

    2. La descrizione che hai fatto di te stessa ricalca molto bene quella di una persona a me molto cara che vorrei poter aiutare, ma non so come. Lei stessa ammette di avere dei problemi che si tiene dentro e spesso si sente sopraffatta dagli eventi della vita quotidiana, ma ripete che “io da uno psicologo non andrò mai!”. Quando la vedo abbattuta, o triste, o ansiosa, vorrei che riuscisse a fare il passo che hai fatto tu, cercando aiuto. A livello emozionale sento il bisogno di ascoltarla e sentire che si apre con me, ma razionalmente non mi interessa essere il suo confidente e preferirei che si recasse da un professionista per potersi liberare dal peso che si porta dentro. Personalmente penso che le rare volte in cui trova il coraggio di parlare dei suoi dubbi e delle sue debolezze siano i momenti in cui riesce ad essere più forte e coraggiosa perché dirsi che non è niente, che ce si la può fare benissimo da soli, che passerà ecc. sono tutti meccanismi “facili” per non affrontare noi stessi e non vedo nessuna forza o coraggio in questo. Anche lei, come te, tira spesso in ballo la società come metro su cui misurarsi, ma io vorrei riuscire a trasmetterle la consapevolezza che le persone hanno valore e importanza al di là della società, che non abbiamo nessun obbligo concreto se non quelli che ci imponiamo noi stessi.

  • Io non so se questo commento sarà utile o meno, ma mi piacerebbe descrivere il percorso che ho fatto per passare dai pensieri di Irene a essere una di quelle persone che vanno in terapia e sono serene mentre fanno il tragitto.
    Penso sinceramente che tutti abbiamo incominciato così, e penso di aver capito anche perché: noi pensiamo sempre alla terapia come all’ultima spiaggia, come a quello che si va a fare quando non si hanno altre vie di fuga, e ci diciamo che, finendo in terapia, significa che veramente siamo caduti in basso – se addirittura non pensiamo di essere pazzi. Andare in terapia è un segno di sconfitta, indica che non ce l’abbiamo fatta.
    E’ strano, perché andare dal medico non è così. Sicuramente è un fatto culturale: la nostra cultura, fin dai tempi dei greci, osanna la razionalità e condanna il corpo, quindi non si stupisce nessuno se hai problemi corporali.
    La prima cosa che ho capito è che, per l’individuo che lo sta provando, ogni problema è un problema di serie A. Certo, se ne prova più di uno, prova a fare una classifica per decidere qual è il più importante; ma non serve a niente fare la gara a chi sta peggio, non serve a niente guardare qualcun altro e dire “beh, lui sta peggio di me”. E quindi? Anche fosse? Perché il fatto che l’altro stia peggio dovrebbe farmi star meglio? Cosa stiamo facendo, una gara? Io ho vinto e lui ha perso? E comunque i nostri problemi li abbiamo ancora: a cosa è servito?
    Eppure sembra che altri reggano meglio situazioni che io non sopporterei mai. Quindi io sono più debole di loro, o no? E qui arriva il secondo passaggio che ho fatto: sì, può darsi, ma non è colpa mia.
    Non ho scelto io di stare una merda per questo, fosse per me io starei bene. Gli altri mi dicono di tirarmi su, e posso dirmelo anche da sola, ma evidentemente non basta. Non è colpa mia: sono semplicemente fatta così, e per questi problemi, ho bisogno di qualcuno.
    Terzo passaggio: non sono l’unica. Pochissimi di noi, se non nessuno, sanno risolvere tutti i propri problemi da soli. Molti se ne accorgono e ne parlano con amici, fidanzati o genitori; ma purtroppo questo serve a volte, ma non sempre, perché i conoscenti non sanno come si fa, esattamente come noi. Ognuno di noi riesce a risolversene alcuni ma non altri, e chiede a qualcuno che, come noi, riesce a risolversene alcuni ma non altri; ma non è detto che sappia risolvere il mio e, soprattutto, non è detto che il suo metodo mi aiuti.
    Ma alcuni mi sembrano comunque non avere mai problemi, no? E quindi questo come si spiega?
    Ed è qui che arriva il quarto passaggio: alcuni di noi non sanno nemmeno di avere problemi. Credono di stare bene, e in una certa forma è così; ma spesso fanno stare male gli altri. La prova l’ho avuta in terapia: molte volte i miei problemi erano causati da problemi di altri non risolti, che altri mi hanno scaricato addosso e con cui io dovevo fare i conti; e sto parlando di almeno cinque o sei persone. E sicuramente è capitato anche a me di non saperlo, e potrei aver fatto male a qualcuno.
    Giungo così alla mia conclusione: se non costasse un sacco di soldi, andare in terapia dovrebbe essere come andare dal medico di base, da cui non si va solo per le emergenze, ma anche per i piccoli fastidi quotidiani, e in generale, per stare meglio.
    So che probabilmente a molte persone tutto questo non sarà utile, perché a volte certe cose puoi sentirtele ripetere da qualcuno cento volte, ma non ti servono a niente; poi le capisci da solo, e tutto contento le dici a voce alta e ti accorgi che è esattamente quello che ti hanno già detto. Però magari, altre volte, può servire che sei a due centimetri dal capirlo da solo, e quindi se qualcuno te lo dice magari ti fa pure un favore. Spero che possa essere utile, almeno per questa seconda categoria di persone.

  • Condivido i ragionamenti del post, però mi ha colpito in particolare: “invidio, invidio da morire tutte quelle persone che vanno in terapia e sono serene mentre fanno il tragitto”.

    Per quanto mi riguarda invece io invidio, invidio da morire quelli che vivono l’andare in terapia come un più, un gesto per aver cura di se stessi, e se un giorno dovessero decidere di non andarci o non potessero, non cadrebbe il mondo per loro.
    Io invece sento la necessità di andarci come se da questo dipendesse la mia vita, certo rimane pur sempre una libera scelta di una mente lucida, ma con un bagaglio di dolore dell’anima non indifferente…

    Con questo non voglio essere frainteso: ben venga chi va in terapia anche con un io ben centrato.

    Anzi andare in terapia è prendersi cura della propria anima (nel senso più agnostico del termine).

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