Negli ultimi due anni, la pandemia ha influenzato trasversalmente molti fenomeni sociali, politici e culturali, tra cui la violenza degli uomini contro le donne. Quando durante il primo lockdown ci è stato detto di restare a casa perché era il luogo più sicuro, per molte donne ciò ha significato vivere 24 ore su 24 con un abuser. Nella maggior parte dei casi, infatti, la violenza di genere è perpetrata da uomini che fanno parte del nucleo familiare della vittima: parliamo quindi di partner, padri, fratelli.
Il 25 novembre del 2020 l’Istat ha pubblicato i dati relativi alle richieste di aiuto al numero di pubblica utilità 1522 contro la violenza sulle donne e lo stalking, raccolti nel periodo compreso tra marzo e ottobre 2020. Questi dati sono fondamentali per monitorare il fenomeno della violenza domestica durante la pandemia. Dal report si evince che nel 2020 si è registrato un aumento vertiginoso delle richieste di aiuto rispetto allo stesso periodo del 2019, passando da 13.424 a 23.071. C’è stato un notevole incremento delle richieste di aiuto via chat, che da 829 nel 2019 sono passate a 3.347. Ciò è stato probabilmente dovuto alla presenza costante in casa dell’abuser, che quindi rendeva difficile effettuare chiamate.
Tra i motivi per cui le donne chiamano il 1522, si segnala che dal 2019 al 2020 sono raddoppiate le chiamate per la “richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza”, che da 4.329 sono passate a 8.608, e le “segnalazioni per casi di violenza” che insieme rappresentano il 45,8% delle chiamate valide. Durante il periodo del lockdown (1 marzo – 15 aprile 2020) le chiamate sono state effettuate maggiormente durante la notte o alle prime luci dell’alba, mentre prima della pandemia le donne vittime di violenza chiamavano nella fascia oraria tra le 9 e le 20, quando gli abuser erano a lavoro.
Cosa è successo nel 2021?
Consultando i dati forniti dall’Istat per il secondo trimestre 2021, emerge che in confronto al picco del secondo trimestre del 2020 (12.942 chiamate valide e 5.606 vittime), caratterizzato dal lockdown, c’è stato un calo sia delle chiamate valide sia delle vittime (rispettivamente -34% e -24%). Diminuisce anche la quota di richieste via chat, che nel secondo trimestre dell’anno scorso costituiva il 18% delle modalità di contatto, mentre nello stesso periodo del 2021 è scesa al 15,3%. Tra i motivi per cui le donne contattano il 1522 continuano a prevalere le chiamate per “richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza” e le “segnalazioni per casi di violenza” che insieme costituiscono il 44,8% (3.812) delle chiamate valide. Tuttavia, nel secondo trimestre, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, le chiamate per i due suddetti motivi sono diminuite del 25%, così come le chiamate per avere informazioni sul numero 1522 (-19,2%). Questo confronto conferma ciò che si era già intuito osservando i dati dell’anno scorso: la presenza continuativa tra le mura della propria abitazione ha influito negativamente sul fenomeno della violenza di genere, ciò significa che restare a casa per molte donne non è sicuro.
Rimane invece costante tra il 2020 e il 2021 la frequenza dei femminicidi che è di 1 ogni 3 giorni. Nel momento in cui scrivo le donne uccise in Italia nel 2021 sono 92, ma mentre leggete queste parole potrebbero essere aumentate, e chissà ancora quante saranno uccise fino alla fine dell’anno.
A riprova del fatto che il più delle volte il carnefice è una persona vicina alla vittima, il report Istat sui femminicidi pubblicato nel 2020 mostra che per l’anno 2019 nel 61,4 % dei casi in cui una donna è stata uccisa a compiere il delitto è stato un partner/ex partner. Questo dato ci dimostra inoltre cosa si intende quando si dice che il femminicidio non indica solo l’uccisione di una donna, quanto piuttosto il motivo per cui è stata uccisa: il trovarsi in una relazione fondata su una disuguaglianza di potere basata sul genere, dove un uomo, in quanto tale, crede di possedere la vita di una donna e poterne fare ciò che vuole, anche togliergliela.
Le ragioni per cui molte donne hanno difficoltà a uscire da dinamiche di questo tipo prima che sia troppo tardi sono molteplici, tra queste gioca sicuramente un ruolo fondamentale la mancanza di indipendenza economica. Ricordiamo che in Italia il tasso di occupazione delle donne è del 50,1% contro il 68% degli uomini e il divario retributivo di genere si aggira intorno al 44%.
Per far fronte al problema e gestire in modo più efficace il percorso di fuoriuscita dalla violenza, per le donne che si rivolgono a centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali è stato previsto il reddito di libertà, un compenso che può arrivare a un massimo di 400 euro mensili per 12 mesi. Per finanziare l’iniziativa il governo Conte ha stanziato 3 milioni di euro derivanti dal Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità. Ma come ha notato D.i.Re, la principale rete di centri antiviolenza in Italia, questa cifra non è sufficiente; facendo un calcolo, i soldi stanziati basteranno ad aiutare 625 donne, un numero irrisorio se pensiamo che sono circa 50.000 le donne accolte ogni anno dai 302 centri antiviolenza presenti nel nostro Paese.
La consigliera nazionale di D.i.Re del Veneto Mariangela Zanni sottolinea anche che 400 euro mensili non permettono a una persona, soprattutto se ha figli a carico, di essere autonoma e indipendente. Altra nota dolente riguarda la necessità di una certificazione dei servizi sociali per ottenere il reddito di libertà, documento non richiesto invece per l’astensione dal lavoro a causa della violenza, né per gli assegni familiari. Questa clausola renderebbe difficile in alcuni casi l’attivazione della misura, dal momento che non tutte le donne decidono di rivolgersi ai servizi sociali. Inoltre, la gestione dei fondi per finanziare il reddito spetta alle Regioni, che dovranno devolverli ai centri antiviolenza, passaggio che già avviene per la maggior parte dei fondi ordinari. Spesso però i pagamenti arrivano in ritardo, rendendo il processo di aiuto alle donne complesso e faticoso; si teme possa accadere lo stesso anche con il reddito di libertà.
La violenza di genere resta un problema strutturale e ben radicato nel nostro Paese e, per quanto si facciano piccoli passi, i piani d’azione per contrastarlo e destrutturarlo sono ancora troppo deboli.