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Violenza ostetrica e razzismo. Uno sguardo intersezionale all’esercizio del potere medico sui corpi

Violenza ostetrica e razzismo. Uno sguardo intersezionale all’esercizio del potere medico sui corpi

Disclaimer. Prima di iniziare, è necessario fare una precisazione rispetto al linguaggio utilizzato nel testo. Come sottolinea Jude Ellison Sady Doyle ne Il mostruoso femminile, legare l’identità sessuale delle donne al tema della gravidanza e del parto e viceversa è fuorviante. Non tutte le donne hanno le mestruazioni, rimangono incinte, allattano e hanno una vita riproduttiva, e non solamente le donne lo fanno. Tuttavia, nell’articolo si tenderà ad utilizzare questo termine principalmente per due ragioni. Da un lato, mancano studi sulla violenza ostetrica rispetto alle persone che si riconoscono in un’identità di genere differente. Dall’altro, sebbene non tutte le donne siano – o desiderino essere – madri, l’esperienza della maternità ha finito per identificare nel corso dei secoli «la totalità dell’essere donna». Il linguaggio utilizzato non costituisce, quindi, un rifiuto di altre possibilità; piuttosto, è la conseguenza di un’analisi realistica di una società patriarcale che perdura e che costituisce la ragione stessa del binarismo in questione. È in questi termini che si cela la possibilità di rivelare tutta la sua artificiosità e iniquità. 

Il 2023 si è aperto con quello che in varie occasioni è stato ribattezzato come il #metoo della violenza ostetrica, una nuova coraggiosa ondata di condivisioni, dopo quella del 2016, di esperienze di abusi e maltrattamenti subiti nel contesto dei servizi sanitari da persone in gravidanza, durante il momento del parto e nel periodo successivo alla nascita. 

Quello della violenza ostetrica è un fenomeno globale, pervasivo e multidimensionale, riconosciuto da anni come una violazione dei diritti umani che si inserisce nel più ampio spettro della discriminazione e della violenza di genere di stampo patriarcale. Tendenzialmente, le modalità attraverso cui trova espressione sono due e si collocano agli estremi opposti: da un lato, può manifestarsi nello schema del “troppo poco, troppo tardi”, nel caso di situazioni in cui le risorse sono inadeguate, il personale medico scarseggia e le cure necessarie non sono disponibili in tempo; dall’altro, si palesa nel modello del “troppo e troppo presto”, caratterizzato da una routinaria iper-medicalizzazione del parto fisiologico, non sempre necessaria e spesso attuata senza il consenso libero, informato e consapevole di chi ne fa esperienza. 

Nonostante entrambi i casi presentino dei rischi legati ad una buona riuscita del parto dal punto di vista puramente medico, una ricerca condotta da Reed, Sharman e Inglis pubblicata qualche anno fa per BioMed Central, ha evidenziato che l’aspetto che risulta maggiormente traumatico per le persone coinvolte non riguarda tanto le possibili complicazioni, bensì la relazione che si instaura con il personale sanitario presente. In tal senso, nel tentativo di contrastare il fenomeno della violenza ostetrica e di rivendicare un percorso-nascita umano, autodeterminato e tutelato, c’è un aspetto che è fondamentale considerare: l’intersezione di questa forma di violenza di genere con la componente del razzismo

Come evidenzia l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ci sono molti fattori non-medici che influiscono sulla salute di una persona. Si tratta dei cosiddetti “determinanti sociali della salute”, ossia le condizioni in cui le persone nascono, crescono, lavorano, e il sistema di forze e sistemi che modellano la loro vita quotidiana – come l’educazione, il salario, l’ambiente, l’alimentazione e via dicendo. Apparentemente, a prescindere dal reddito, in tutti i paesi i parametri di salute e malattia seguono una sorta di gradiente sociale: minore è la posizione socioeconomica, peggiore è il livello di salute. Eppure, nel caso della salute materna, soprattutto delle donne che appartengono ad una minoranza nel paese in cui vivono, le cose non sembrano stare proprio così. Queste ultime, infatti, sono particolarmente vulnerabili a prescindere dal loro status socioeconomico. 

Recenti ricerche realizzate negli Stati Uniti restituiscono un’idea molto concreta dell’impatto della discriminazione e dei bias razzisti nel contesto della salute riproduttiva, nello specifico per quanto riguarda la mortalità materna e la violenza ostetrica. Negli Usa, le donne afroamericane hanno tre volte più probabilità di morire durante il parto rispetto alle donne bianche, a New York la probabilità è otto volte maggiore. Le condizioni economiche non contano: le madri nere con un reddito elevato hanno tassi di mortalità materna simili a quelli delle madri bianche con un reddito basso. Questi studi ci dicono che lo stesso vale per il livello educativo: il tasso di mortalità materna tra le donne nere con un’istruzione universitaria conclusa o superiore è cinque volte quello delle loro controparti bianche. Come si spiega, allora, questo divario? 

Nel 2018, la professoressa, psicologa e antropologa americana Dána-Ain Davis cerca di chiarirlo attraverso il concetto di “razzismo ostetrico” (“obstetric racism”). Con questa espressione, Davis sottolinea la posizione subordinata attribuita alla riproduzione delle donne non bianche, che affonda le sue radici nel ruolo che la schiavitù, il razzismo e il capitalismo razziale hanno avuto nello sviluppo della medicina ostetrica e ginecologica. Secondo la studiosa, si tratta di una dinamica legata a pratiche e credenze rispetto al “corpo nero che si riproduce”, “the reproducing Black body”, e si costruisce come un incrocio tra la violenza ostetrica e il razzismo medico, che finisce per razzializzare ogni aspetto e ogni organo del corpo in questione. 

Davis individua quattro dimensioni del razzismo ostetrico: errori critici nella diagnosi; trattamenti negligenti, sprezzanti o irrispettosi; dolore intenzionalmente inflitto; costrizione a sottoporsi a procedure. Aggiunge, successivamente, altri tre aspetti da tenere in considerazione. Primo, cerimonie di degradazione, che descrivono il modo in cui le donne nere vengono messe in imbarazzo, umiliate o tenute emotivamente in ostaggio e che le costringono ad essere accomodanti per apparire il meno minacciose possibile. Secondo, l’abuso medico, che coinvolge la possibilità di essere sfruttate per scopi di sperimentazione. Infine, ciò che definisce “ricognizione razziale” (“racial reconnaissance”), ovvero lo sforzo emotivo e pratico che le pazienti fanno per evitare o mitigare gli episodi razzisti che potrebbero incontrare negli ambienti sanitari, scartando quegli spazi di cura in cui hanno saputo essersi verificati, utilizzando il razzismo come “filtro” rispetto all’accesso alle strutture mediche.     

Naturalmente, la logica della salute riproduttiva si fonda su un esercizio sbilanciato del potere con una prospettiva più ampia, fin dalle sue origini. Tuttavia, è fondamentale riconoscere la posizione di chi è potenzialmente vulnerabile non soltanto nelle sue condizioni socioeconomiche, ma anche e contemporaneamente ai sistemi di oppressione e di dominio razziali e di genere. Di fatto, le dinamiche attraverso cui la violenza ostetrica viene agita in queste circostanze si differenziano in parte da quelle impiegate nei confronti delle donne bianche, non soltanto dal punto da vista concreto, ma anche nei fattori pregiudiziali (più o meno consapevolmente interiorizzati dal personale sanitario) che concorrono a rafforzarne la pervasività e a garantirne l’impunità. 

Ci sono, infatti, una serie di bias razzisti e di false teorie che si sommano ad una diffusa deumanizzazione nel contesto del parto. In particolare, le donne nere si ritrovano in una condizione di iper-medicalizzazione che risponde ad approcci patologizzanti dei loro corpi – fondati sull’idea che le loro esperienze sarebbero maggiormente soggette a complicazioni. Al tempo stesso, si vedono corrisposte maggiore trascuratezza e negligenza da parte del personale sanitario, che nega loro la possibilità di una reale autodeterminazione e di un’effettiva protezione. La violenza esercitata nei loro confronti si è radicata su teorie ampiamente screditate, quali quella della “razza biologica”, che hanno contribuito alla costruzione dei corpi non bianchi come biologicamente diversi, fisicamente più forti, resistenti al dolore e più a rischio di complicazioni sanitarie. Assunzioni, queste, da cui sono derivati trattamenti medici e pratiche differenti e dannose.

Ciò significa che l’impatto delle condizioni socioeconomiche sul livello di salute e sulla qualità dei servizi di cura non è lo stesso per ogni persona e che, in questo caso specifico, il razzismo agisce quale componente indipendente rispetto alla classe e al genere. Le disparità nel contesto della salute materna, dalla mortalità alla violenza ostetrica, riflettono esattamente quel divario di cui si è parlato prima, rendendo evidente come, chiaramente, non sia l’idea della supposta “diversità biologica” a spiegarlo, bensì il razzismo. Maggiore sarà la disparità di privilegio, maggiore sarà l’oppressione che ne deriverà. 

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Per quanto riguarda l’Italia, gli unici dati disponibili sul fenomeno sono quelli raccolti dall’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica nel 2017, che però non sono disaggregati e non permettono di comprendere la misura in cui questa forma di violenza impatta sulle persone che appartengono a minoranze nel Paese. Tuttavia, la scarsa formazione del personale sanitario rispetto a stereotipi e diversità culturale nell’ambito delle pratiche relative alla nascita, lascia spazio sufficiente ad ipotizzare che il trattamento riservato a donne migranti, rifugiate, appartenenti a minoranze marginalizzate o attualmente in situazioni di vulnerabilità, sia sistematicamente differente e meriti un’attenzione specifica. 

La violenza ostetrica ha radici e manifestazioni multiple e complesse. L’intento non deve essere quello di stabilire una “gerarchia” di gravità sulla base dei corpi sui quali questa violenza è agita. Dobbiamo piuttosto sottolineare la necessità di una presa di coscienza collettiva rispetto all’impatto della sovrapposizione di diversi aspetti dell’identità sociale e delle possibili forme di oppressione e discriminazione che ne derivano per tutti quelli che ancora troppo spesso vengono considerati meri “contenitori” di utero. Solamente uno sguardo intersezionale sul tema può costruire una lotta e delle rivendicazioni capaci di contrastare attivamente quei determinanti sociali della salute, tra cui il razzismo, che oggi rendono gli spazi sanitari e di cura non sicuri e non accoglienti per tuttз, senza lasciare indietro nessunə. Si tratta di non dimenticare di passarlo questo microfono, una volta acceso. 

Nota: Per approfondire il tema, è possibile visitare il sito di Black Mamas Matter Alliance: https://blackmamasmatter.org/. L’associazione unisce madri e persone gestanti attraverso iniziative di advocacy e di ricerca per la costruzione del potere e di una nuova cultura per i diritti, la giustizia riproduttiva e la salute materna delle persone nere. La BMMA fornisce assistenza tecnica, formazione e supporto alle strutture sanitarie dedicate ai servizi di cura per la gravidanza e il parto, al mondo accademico e alla sanità pubblica. Promuove connessioni e collaborazioni per una politica sanitaria materna a livello globale. Ogni anno, nel mese di aprile, guida la Black Maternal Health Week, una campagna per generare consapevolezza, attivismo e comunità, amplificare le voci, le prospettive e le esperienze raccolte. La settimana si tiene durante il National Minority Health Month e inizia l’11 aprile di ogni anno, in concomitanza con la Giornata Internazionale per la Salute e i Diritti Materni.

 

Fonti
  • Campbell, C., Medical Violence, Obstetric Racism, and the Limits of Informed Consent for Black Women, «Michigan Journal of Race and Law», vol. 26, pp. 47-75 (2021).
  • Davis, D. A., Reproducing while Black: The crisis of Black maternal health, obstetric racism and assisted reproductive technology, «Reproductive BioMedicine and Society Online», vol. 11, pp. 56-64 (2020).
  • Doyle, J. E. S., Il mostruoso femminile: Il patriarcato e la paura delle donne, Perugia, Tlon (2021).
  • Kennedy-Moulton, K., et al., Maternal and Infant Health Inequality: New Evidence from Linked Administrative Data, U.S. Census Bureau (2022).
  • Miller, S., et al., Beyond too little, too late and too much, too soon: a pathway towards evidence-based, respectful maternity care worldwide, «Lancet», vol. 388 no. 10056, pp. 2176-2192 (2019).
  • Petersen, E. E., et al., Racial/Ethnic Disparities in Pregnancy-Related Deaths — United States, 2007–2016, «Morbidity and Mortality Weekly Report», vol. 68 no. 35, pp. 762-765 (2019).
  • Reed, R., Sharman R., and Inglis C., Women’s descriptions of childbirth trauma relating to care provider actions and interactions, «BMC Pregnancy and Childbirth», vol. 17 no. 21 (2017).
  • United Nations General Assembly, A human rights-based approach to mistreatment and violence against women in reproductive health services with a focus on childbirth and obstetric violence, Report of the Special Rapporteur on violence against women, its causes and consequences, A/74/137 (2019).
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