Articolo di Alessandra Vescio
«Ma cos’è accaduto, Signora Simone? Cos’è accaduto di preciso ai suoi occhi grandi, che rapidi nascondono la solitudine dietro a un velo? Alla sua voce quasi povera di tenerezza, ma da cui sgorga il suo impegno per la battaglia della Vita? Cosa le è accaduto?» È con queste parole, che Maya Angelou rivolge a Nina Simone in un’intervista del 1970, che si aprono la biografia e il documentario dal titolo «What happened, Miss Simone?» sulla Sacerdotessa del Soul. La biografia, curata dal giornalista Alan Light, ha lo scopo di integrare con ulteriori testimonianze il documentario diretto da Liz Garbus e disponibile su Netflix. E forse proprio per la maggiore completezza (ma anche perché il documentario è stato voluto da Lisa Kelly Simone, figlia di Nina) ci offre un’immagine della cantante meno edulcorata ma molto più realistica e schietta.

Entrambe le opere raccontano – seppure in modo diverso – l’attivismo politico di Nina Simone, che nella sua vita e nella sua carriera ha giocato un ruolo fondamentale. Che esistessero dei pregiudizi razziali, Simone – nata a Tyron in North Carolina il 21 Febbraio 1933 col nome di Eunice Kathleen Waymon – lo scopre relativamente presto, pur non riuscendo a comprenderne il significato. Spesso si accorge che c’è qualcosa di strano di cui però in famiglia non si parla: non ne parla il padre John, nonostante la sua passione politica, né la madre Mary Kate, fervente e autoritaria predicatrice religiosa, o i fratelli con cui Eunice avrà sempre dei rapporti altalenanti. Eppure, ad esempio, lei ogni pomeriggio percorre 5 km a piedi e attraversa i binari che separano letteralmente la comunità nera dai bianchi per raggiungere la sua insegnante di pianoforte dall’altra parte della città, con tanto di effetto straniante e difficile da capire.
Alcuni episodi poi la segnano profondamente. Il primo avviene nel 1943, durante una sua esibizione in teatro. Ai genitori di Eunice infatti viene chiesto di lasciare la prima fila e di spostarsi in fondo alla sala. Saputo ciò, Eunice si rifiuta di suonare fino a quando Mary Kate e John non vengono spostati ai primi posti. Un secondo episodio riguarda invece il Curtis Institute, la prestigiosa scuola di musica di Philadelphia: Simone non viene ammessa malgrado una prova eccellente. A detta sua e di chi la circonda si è trattato di un pregiudizio razziale: nonostante, infatti, alcuni dicano che la scelta sia semplicemente ricaduta su pianisti più bravi di lei, c’è chi – come l’amico e fan della cantante Roger Nupie – fa notare come non vi fossero «studenti neri di musica classica al Curtis Institute, né tantomeno studentesse nere».
La carriera di Simone ovviamente decolla a prescindere dal sesso e dal colore della pelle, non come pianista di musica classica, ma in quanto cantante e musicista soul. Per molto tempo, però, Nina sente più la stanchezza del lavoro che la soddisfazione del successo. A farle da manager c’è il marito Andrew Stroud, ex poliziotto, con cui Simone ha una figlia e che abusa di lei fisicamente e psicologicamente: nei suoi diari spesso Nina si dice spaventata per la violenza del marito ed estenuata dalla mole di lavoro. Nel 1963 Simone corona il sogno di suonare alla Carnegie Hall, ma sente comunque il rammarico di non essere arrivata lì in quanto «prima donna nera pianista di musica classica degli Stati Uniti d’America».
In quello stesso anno però la sua vita e la sua carriera subiscono una svolta. Nel settembre del 1963, in una Chiesa battista di Birmingham, in Alabama, un attentato terroristico a stampo razzista uccide quattro bambine nere durante la lezione domenicale di catechismo. Scossa e arrabbiata, Nina Simone trasforma l’ira in un brano: Mississippi Goddam. «Quando hanno ucciso quelle bambine mi sono detta: “Devo iniziare a usare il mio talento per i neri”. Quando hanno ucciso quelle ragazzine in Alabama sono cambiata», dichiarerà poi la stessa Simone. Interessante a tal proposito il punto di vista del comico e attivista Dick Gregory: «Nonostante tutta la sofferenza vissuta dai neri, nessun uomo si azzarderebbe a cantare Mississippi Goddam. […] Mississippi Goddam: quell’usare il nome di Dio invano. Lei lo ha fatto, ha detto “Mississippi, che Dio ti maledica”. Tutti avremmo voluto dirlo, ma lei lo ha detto. È questo che fa la differenza, che la distingue dagli altri.»
Da questo episodio, da questo brano ha inizio l’intenso e passionale attivismo di Nina Simone. Vicina a Martin Luther King per obiettivi e ambizioni, la Sacerdotessa del Soul si è però presto scoperta e dichiarata una non pacifista: «ci sono persone che vedono l’ingiustizia e la fanno diventare parte di sé e poi non riescono più a liberarsene; credo che Nina Simone fosse una di quelle persone», sostiene nel documentario Ilyasah Shabazz, figlia di Malcom X. Colonna sonora del movimento per i diritti civili, Nina Simone si accorge presto di riuscire a parlare alla gente tramite le sue canzoni. D’altronde, però, quello è anche un modo per parlare a se stessa, per capirsi, per accettarsi. Il suo avvicinarsi al movimento dei diritti civili le dà la possibilità di guardare a se stessa e alla propria infanzia con occhi diversi, di capire cosa è successo, come e perché. Sente il bisogno di dare un significato alle cose che fa, come spiega la figlia Lisa. Non è un caso dunque che nel 1966, dopo anni di rifiuto della propria immagine e dunque della propria identità, Nina Simone si presenti al pubblico con i capelli afro. «Non posso essere bianca», si legge nel suo diario, «sono il tipo di ragazza di colore che i bianchi disprezzano o hanno imparato a disprezzare. Se fossi un maschio, non avrebbe così tanta importanza, ma sono una femmina e sono continuamente davanti a un pubblico, esposta al suo scherno, alla sua approvazione o alla sua disapprovazione».
Proprio nello stesso anno in cui il suo aspetto si fa portavoce dell’orgoglio nero, Nina Simone scrive Four Women. Il brano, che racconta di quattro donne nere e diverse tra loro ma di cui nel documentario non si parla, «incapsula completamente il problema dei neri in America tra le donne», dice Nina Simone nel 1984. «Four women dava a noi donne nere l’opportunità di riflettere sulla nostra coesistenza all’interno della nostra stessa comunità. Nina Simone ebbe la capacità di raccontare una storia, se stessa, e di essere tutte le donne nel momento in cui le scriveva. […] E noi tutte conoscevamo almeno una o due di quelle donne, perciò ci sentivamo rappresentate. La canzone ci metteva di fronte a noi stesse». Così Simone aggiunge un tassello in più al suo attivismo, quello del femminismo afro, il cui apice lo raggiunge nel 1969 con il brano To be Young, Gifted and Black, scritto in memoria dell’amica e attivista Lorain Hansberry scomparsa nel 1965.
«Ai miei occhi», dice Nina Simone parlando del brano, «noi donne di colore siamo le creature più belle del mondo. Intendo in tutti i sensi, dentro e fuori. La nostra cultura non è paragonabile a quella di nessun’altra civiltà, per quanto sia a noi ancora sconosciuta. Il mio compito è di metterla in luce e di risvegliare nella mia gente la curiosità, o di persuaderla, in un modo o nell’altro, a prendere consapevolezza di se stessa, delle sue origini. […] Non sappiamo niente di noi stessi. Non abbiamo l’orgoglio e la dignità del popolo africano. Non siamo nemmeno in grado di parlare delle nostre origini, perché non le conosciamo. Siamo una razza perduta, e le mie canzoni vogliono deliberatamente risvegliare delle consapevolezze: “Chi sono? Da dove vengo? Mi piaccio davvero? E perché mi piaccio? E se sono nera e bellissima, e lo sono davvero e ne sono consapevole, allora non mi interessa se qualcuno afferma il contrario”. Ecco di cosa parlano le mie canzoni, e sono rivolti alla gente nera. Ma è anche vero che – per come sono state concepite musicalmente, per la loro forma e forza musicale – sono canzoni universali, e spero che sopravvivano anche dopo la mia morte.»
E proprio mentre To be Young, Gifted and Black viene nominato Inno nazionale nero dal Congress of Racial equality, Nina Simone si allontana dal sogno dell’uguaglianza razziale per sostenere le tematiche del Black Power come l’indipendenza e l’autosufficienza.
La sua attività politica, i temi trattati, lo schierarsi completamente da una parte che è la sua parte e la rabbia che mette nello scrivere brani come Mississippi Goddam intralciano però a lungo la sua carriera. Le radio non passano le sue canzoni di protesta, i dischi tornano indietro spezzati in due e ottenere delle date diventa sempre più difficile. Contrario alla sua attività politica ovviamente è Andrew Stroud che vede in Nina Simone la fonte ma anche l’ostacolo stesso al successo e alla ricchezza per entrambi. Simone intanto è stremata e la perdita di amici e mentori come Marthin Luther King e Malcolm X l’ha segnata. Così lascia il marito e inizia a viaggiare. Va in Africa, alle Barbados e infine in Europa. Nina Simone è ormai completamente sola e i suoi celebri sbalzi d’umore si fanno sempre più intensi e spaventosi. Così quando le viene diagnosticato un disturbo bipolare e di depressione maniacale, la sua pericolosità e la sua fragilità sembrano quasi assumere un significato.
Nina Simone è una donna segnata: dai pregiudizi della società, dalla sopraffazione che si finge amore, da una malattia che le ha condizionato la vita. Ed è spaventata da se stessa, lo è sempre stata. È spaventata dai suoi bisogni, dalle cadute e da quell’incapacità di far coincidere le aspettative altrui coi suoi desideri e le sue possibilità.
Tutto questo emerge dalla lettura della biografia più che dal documentario che – come si è detto – tende a offrire una visione di Simone quasi addolcita. Ma lei non ha avuto il tempo né l’intenzione di essere dolce. Nina Simone era irrequieta, appassionata e aveva un talento immane. E quando tutta la rabbia che covava dentro di sé si trasformava in musica, il risultato lasciava sempre senza parole.