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“Zero” è la serie TV che dimostra che non serve essere perfettǝ per essere importanti
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“Zero” è la serie TV che dimostra che non serve essere perfettǝ per essere importanti

Articolo di Attilio Palmieri

Siamo a Milano, nel Barrio, quartiere periferico immaginario del capoluogo lombardo ispirato alla Barona. Le persone che vediamo sono quasi tutte italiane, o meglio, lo sono per chiunque salvo che per la legge italiana nella quale ancora non figura lo Ius Soli a causa di una politica reazionaria che rende invisibili coloro che nascono da genitori non italiani. È questo il contesto geografico e sociale in cui si svolge “Zero”, serie originale Netflix nata da un’idea di Antonio Dikele Distefano, autore del romanzo “Non ho mai avuto la mia età”, edito da Mondadori.

Se negli ultimi due decenni Milano si è affermata come la più europea delle città italiane, quella in cui ci sono i maggiori investimenti, si vive, ci si sposta e si fa festa come nelle capitali internazionali, anche la sua periferia si è evoluta in maniera simile a quelle di tante altre grandi città, popolandosi sempre più di persone non bianche, spesso povere e spinte ai margini della metropoli da un mercato immobiliare che esclude sempre di più le famiglie meno abbienti. Un processo che ha costruito quartieri simili a dei ghetti, che al contempo sono sia il cuore pulsante di un’identità collettiva italiana ma in discontinuità con l’idea tradizionale di italianità, sia una sorta di prigione alla quale ci si sente condannati e da cui si vorrebbe evadere.

Giuseppe Dave Seke interpreta Zero, protagonista afrodiscendente di una storia italiana. A sorprendere immediatamente è sia il vedere l’attore principale e il suo corpo al centro dello schermo, ma anche tutta quella squadra di persone non bianche che popolano gli episodi e che occupano finalmente la storia, modellando così lo sguardo della serie, definendo la prospettiva del racconto e quindi anche i temi che lo show convoca.

“Zero” è una serie che cambia le regole del gioco, perché anche solo provare a raccontare quel tipo di esperienze e restituirle come intimamente italiane, significa fare qualcosa di nuovo e all’avanguardia, non solo per la serialità televisiva, che da sempre è stata recalcitrante all’idea di raccontare storie italiane legate a persone non bianche, ma anche per la conversazione pubblica che un lavoro del genere può innescare a proposito di persone che di solito sono invisibili e, quando non lo sono, finiscono per essere raccontate attraverso stereotipi degradanti.

In questo senso “Zero” ribalta il tavolo, rompe in maniera radicale con il passato in materia di rappresentazione nella televisione italiana e rappresenta un precedente di quelli importantissimi per chiunque voglia produrre e creare serie televisive in questo Paese. E questo indipendentemente dalla qualità della serie.

Non c’è bisogno, infatti, di analizzare quanto riuscita sia la sua scrittura, efficaci le interpretazioni o coraggiose le scelte stilistiche per ragionare in materia di rappresentazione e valutare quanto possa essere importante il ruolo di un prodotto di questo tipo per lo stato attuale e l’evoluzione della televisione italiana. Quelle estetico-narrative sono tutte caratteristiche che vengono dopo, molto dopo. Perché vedere uno show ambientato in Italia interpretato da quasi tutte persone non bianche contribuisce a costruire le condizioni per immaginare modi alternativi per raccontare le persone italiane, dopo che da sempre ne è stata raccontata solo una parte. Vedere sullo schermo persone che nella vita reale esistono, ma che nelle rappresentazioni sono invisibili, serve a normalizzare la diversità (e magari anche a metterci la pulce nell’orecchio sul fatto che varietà = ricchezza, in tutti i sensi).

Il ruolo delle persone non bianche nelle narrazioni audiovisive (quando ci sono) è di solito relegato alla quota di rappresentanza e pertanto è quasi naturale che la rappresentazione sia pesantemente influenzata dagli stereotipi. In questo caso la vera forza sta nella quantità e quindi nella pluralità, che tolgono ai personaggi l’obbligo di essere rappresentativi di un’intera categoria e dà loro la possibilità di esprimersi in tutta la loro unicità e tridimensionalità.

In “Zero” le persone nere sono tante e con profili molto diversi a partire dal lato anagrafico, ciascuna di loro ha una sua identità, desideri, situazioni familiari, sogni e paure specifiche. Alcune sono protagoniste mentre altre hanno un ruolo più laterale, ma tutte sono importanti nella realizzazione di un intreccio che raramente si vede in televisione (ma il discorso si può estendere tranquillamente al cinema italiano), permettendo alla serie di parlare di un contesto multietnico senza per forza avere il taglio della denuncia sociale, ma anzi sviluppando un racconto che unisce il coming of age al racconto fantastico.

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È una serie perfetta? Sicuramente no, sia perché di serie che si muovono sui binari dell’eccellenza ce ne sono poche e non ha alcun senso richiedere la perfezione in fase di analisi, sia perché l’ambizione di fare qualcosa di diverso dall’esistente molto spesso porta ad andare per tentativi, che in quanto tali non sempre sono riusciti al 100%. Sotto certi punti di vista risulta anche una serie deludente perché alcuni dialoghi sono davvero banali e didascalici (“tu sei speciale e io no. No, tu sei speciale e io no”) e avrebbero potuto essere realizzati con un po’ più di profondità e verosimiglianza. A più riprese “Zero” non riesce a sfuggire alle trappole dei cliché, che si accumulano sempre di più, episodio dopo episodio, a partire dai lavori che fanno i protagonisti: i rider e la producer di musica rientrano perfettamente in ciò che ci si aspetta da questo tipo di personaggi, il che non è in assoluto una cosa negativa, ma diventa stereotipata nel momento in cui si fa elemento caratterizzante autonomo, senza una backstory di supporto.

Nonostante questi elementi critici, che non sono pochi e né insignificanti, l’idea di partenza è molto intrigante e anche il suo sviluppo narrativo che fonde rom-com e superhero show ha grandi potenzialità che sicuramente potevano essere sviluppate molto meglio, ma in ogni caso rappresentano un motivo di obiettiva originalità. In questo senso la seconda stagione sarà una grande opportunità per limare i difetti e continuare a lavorare sui lati virtuosi dello show.

Quello che alla fine ci lascia “Zero”, insomma, è che non c’è bisogno di essere perfetti per essere importanti e pur essendo una serie non priva di problemi, se da oggi in poi avremo più storie con protagonisti italiani non bianchi sarà anche perché questa strada è stata pavimentata da questo show.

Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di @netflixit

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