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Decolonizziamo la conoscienza!

Decolonizziamo la conoscienza!

La modernità – e quindi la scienza moderna – nasce con la conquista dell’America e il colonialismo. Per  questo, essa risulta imprescindibile dalla violenza e dal razzismo. Ci siamo mai chiestə cosa ci sia dietro le parole ‘scientifico’, ‘obiettivo’, ‘moderno’?  

La produzione e distribuzione della conoscenza, come tutti gli altri ambiti della vita, sono anch’essi ‘colonizzatori’, ovvero: subiscono gli effetti del passato colonialismo e del neocolonialismo moderno e alimentano relazioni colonizzanti. L’egemonia del nostro caro uomo cis, etero, borghese, bianco,  abile, si trasmette anche attraverso questo meno osservato canale. I libri che si studiano nelle università del mondo sono principalmente di autori cis-uomini, provenienti da sole sei delle circa duecentosei nazioni del mondo. Nel raro caso incontriate autorə appartenenti a gruppi non egemonici, le loro voci appariranno relativizzate ed esoticizzate. Come l’attore rifugiato che parteciperà solo a spettacoli sulla traversata del mediterraneo, l’autrice che, in quanto donna, verrà invitata solo se si parla dei diritti delle donne o la  divulgatrice autistica che verrà ascoltata solo in caso parli di autismo.  

La colonizzazione si perpetua attraverso tre canali principali: lo sfruttamento del lavoro e la sua razzializzazione sotto l’egemonia del capitale (“colonialità del potere”); un sistema di egemonia  culturale, in nome dell’eurocentrismo e della razionalità moderna (“colonialità del sapere”) e la costruzione, dopo la conquista dell’America, della soggettività moderna, dove il soggetto bianco è  ritenuto superiore al non bianco. Prima di questo momento, infatti, nessunə si pensava biancə, riuscite a immaginarlo? 

Non possiamo quindi in alcun modo considerare la modernità separata dalla violenza. Vale la pena  riflettere su ciò quando usiamo parole come ‘moderno’, ‘civile’ e ‘sviluppato’. In vista di un processo  di decolonizzazione è necessario liberarsi totalmente da tali concetti.

Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, grazie all’affermazione del positivismo, come unica filosofia di  riferimento, si andò a formare una fiducia assoluta verso la scienza e le sue teorie. Questo fu il periodo in cui l’occidente decise cosa fosse ‘scientifico’, ‘obbiettivo’ e ‘universale’, cosicché, una prospettiva assolutamente parziale (caucasica, borghese, eteronormativa, abilistica e inscindibile dal patriarcato)  divenne il filtro per ciò che si definì, e si definisce, ‘normale’ e ‘universale’. 

Questo legame tra conoscenza e potere viene creato e mantenuto da alcune operazioni cognitive tipiche della produzione del sapere occidentale. La prima è il dualismo, ovvero la divisione della realtà tra cultura e natura, mente e corpo, bene e male, identità e differenza (ad esempio il ‘noi’ in quanto bianchə e il ‘loro’ in quanto non bianchə), uomo e donna, conoscenza specialistica e popolare, etc… Dove ai primi viene concesso il privilegio di decidere cosa è, mentre i secondi vengono relegati nel ciò che non è. La seconda operazione è la conversione di queste differenze in gerarchie e la naturalizzazione/normalizzazione di queste ultime. Infine, il cosiddetto atomismo, ovvero la divisione del mondo in unità isolate, di cui non vengono considerate le interconnessioni e il loro collocarsi in relazioni storiche e sociali.

Un esempio può essere il modo in cui il trauma di una persona, arrivata in Italia come rifugiata, viene letto da diversə professionistə secondo le proprie specializzazioni, ma raramente viene pensato, e di conseguenza curato, con la sua dipendenza dal razzismo e dall’ingiustizia globale. 

Molte delle persone che producono sapere usano un linguaggio molto specialistico e una iperintellettualizzazione. Basti pensare, nel pensiero critico, a Judith Butler, l’autrice femminista e  teorica queer che ha scritto  Undoing Gender, testo importantissimo, ma ostico. Farsi capire è invece una questione politica. L’accademia stessa (per la maggior parte uomini cis, bianchi, sani, che provengono  da famiglie di accademicə) crea un codice, da conoscere e usare se si vuole farne parte e venire consideratə come “scientificə” e da comprendere se si vuol usufruire della conoscenza prodotta da questa. Rachele Borghi, nel suo libro illuminante Decolonialità e privilegio, chiama questo codice normometro, descrivendo come esso renda queste regole stabilite e immutabili.

Sapere che la razionalità e la scientificità moderna sono inseparabili dal colonialismo non significa che dobbiamo smettere di essere razionali e di credere nella scienza. Occorre però mettere in discussione le loro aspirazioni imperialistiche, i loro dogmi e la loro pretesa di unicità. Smettiamo, per esempio, di  distinguere tra cultura ‘alta’ e ‘bassa’: le conoscenze prodotte dai movimenti sociali, dovrebbero valere tanto quanto quelle prodotte (spesso senza conoscenza né esperienza diretta) nelle università. Pensando inoltre alla evoluzione (o involuzione?) del femminismo negli ultimi anni in ambito accademico e istituzionale, bisognerebbe (come sostiene Maria Nardotti) nuovamente avere il coraggio di non dividere il personale dal politico, la teoria della vita, la conoscenza dall’esperienza emozionale, sessuale e materiale. Quindi non avere paura di inserire nella ricerca e nella scrittura il proprio privato, le proprie emozioni e il proprio corpo.  

Quale potrebbe essere quindi il contributo alla decolonizzazione di unə studentə, scrittricə,  divulgatorə, ricercatricə europeə?  

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Rachele Borghi afferma che il primo passo sia partire da se stessə (che è diverso dal parlare di sé stessə). Nonostante la pretesa ‘obiettività’ e ‘neutralità’ della ricerca in ambito europeo e nordamericano, essa non può essere scissa dal soggetto che la propone. La ricerca, come la scrittura è sempre parte di te stessə. In un mondo pieno di ingiustizie sistemiche, non vogliamo – tra l’altro – essere neutrali, ma al contrario vogliamo prendere partito ed essere coinvoltə. Sarebbe quindi opportuno lasciare la pretesa di una ricerca neutrale per una ricerca che sia apertamente attivista. Rachele Borghi, che insegna geografia all’università La Sorbona, inizia il proprio corso descrivendosi come donna, bianca, lesbica, no english-speaking etc. Borghi è cosciente di appartenere al gruppo di oppressori epistemologici, poiché le sue parole, solo per il semplice fatto di provenire dal suo corpo, valgono di più di quelle di altrə. Questo significa che, in quanto portatricə di privilegi, ognunə debba prendersi la responsabilità e la consapevolezza per chi è e dove si trova.  
Allo stesso tempo però, dice Borghi:

il potere può anche servire per rovesciare il potere. Per me questi sono esercizi di decolonialità del privilegio. Quando il privilegio ce l’hai, allora lo puoi usare ribaltato: mobilitarlo come strumento di resistenza e di sovversione all’interno del sistema dominante.

Per questo bisogna attivamente decidere di lasciare i panni (seppur incoscienti) dell’oppressorə per diventare alleatə, all’interno del proprio sistema (qualunque esso sia) schierarsi direttamente contro il razzismo, la colonizzazione e la superiorità bianca sistemica, bloccando o ostacolando politiche e strutture razziste. Per quanto riguarda la ricerca, significa per esempio superare e rompere i confini e le regole, mescolare i linguaggi e i codici, fare spazio a voci non egemoniche (per altre identità di genere rispetto al maschile, non accademiche, né eteronormative etc.), senza fermarsi solo a questo. Gayatri Chakravorty Spivak chiedeva se i subalterni possano parlare. Ma perché qualcunə (la cultura dominante) dovrebbe avere il diritto di concedere spazio ad ‘altre’ voci, proprio in quanto ‘altre’ rispetto al soggetto oppressore? Oltre a far spazio a voci non egemoniche, bisogna quindi contemporaneamente mettere in dubbio la legittimità dei produttori di conoscenza. Bisogna chiedersi, perché e per chi si fa ricerca e quale idea di soggetto, società, passato, presente e futuro siano per essa necessari.  Andare  contro le regole:

Le trasgressioni nella scrittura scientifica sono cavalli di Troia (Wittig) perché,  legittimando nuove prassi, creano nuovi corpus. La trasgressione prende il sapore dell’azione diretta,  della pratica politica. Se osi, nella tua tesi come nei tuoi articoli e se questi passano il vaglio della comunità scientifica, allora avrai aperto una strada o contribuito ad inaugurare un altro tratto di una già  aperta. Avrai rafforzato nuove prassi che permettono, all’interno di uno spazio-centro come quello del  sapere scientifico, di mantenere il posizionamento al margine come luogo di creatività e costruzione di  nuovi mondi”. (Rachele Borghi)

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