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Non è una Legge per noi

Non è una Legge per noi

Ormai da anni riusciamo a sentire parlare nei più disparati talk show, giornali, social, tra le parole scambiate dei vari politici, dei tanto temuti e irraggiungibili diritti delle donne. Per quanto, infatti, il tentativo di avvio verso un loro raggiungimento e riconoscimento nella società occidentale sia ormai riconducibile ai secoli precedenti – e in particolare modo il XX secolo – solo ai giorni d’oggi è stato possibile una vera e propria diffusione delle informazioni su tale categoria normativa, così da permettere un aumento dell’opinione pubblica nei confronti di ciò. Ma si tratta davvero di avere un’opinione pubblica rafforzata e omogenea a tal riguardo? Serve davvero che un diritto, se in quanto tale innato, venga riconosciuto? E se riconosciuto, da chi e attraverso quali strumenti?

È questo il cuore della critica mossa nei confronti della Legge, al centro dei più grandi studi femministi, che hanno tentato attraverso la ricostruzione storica, sociologica, politica e giuridica dei secoli passati, di spiegare cosa si cela dietro un normativismo giuridico definito sbagliato; non perché stia evitando di raggiungere questi diritti, ma perché di natura corrotta. 

Una natura, sostanzialmente, patriarcale. Una natura che risale a tempi lontani, riconducibili alle polis e ciò che accadeva nell’Antica Grecia. 

Là dove la città e la cittadinanza venivano istituiti, là dove la struttura urbanistica si sviluppava simbolicamente e strutturalmente in due parti: una, dove nasceva la Legge e la politica, e l’altra, dove nei confronti di tutto ciò, non ne era richiesta la partecipazione di parte della popolazione. La distinzione diede il via alla creazione di due gruppi distinti. Da un lato coloro che erano addetti alla creazione delle regole necessarie a definire ciò che fosse lecito ed illecito in una società secondo delle norme comuni e rispettate: gli uomini nella Chora. Dall’altro, un grande gruppo sociale rimanente, che apparteneva anch’esso alla polis, ma che contava al suo interno gli stranieri, gli schiavi e le donne. Ecco che, con il sorgere della tradizione normativa, che segna una spaccatura inevitabile della costruzione sociale della nostra realtà e nella percezione del cittadino come non più suddito, ma capace di scegliere i suoi rappresentanti, il potere di legiferare e definire i confini leciti di una società non sembra appartenere alle donne. Non essendo incluse nel processo decisionale e di applicazione delle norme, si diventava espressione di un mondo prettamente maschile. La distanza, sostanziale e formale, delle donne da questo aspetto della Legge, le portano ad essere viste come un alter. La loro realtà risultava a questo punto essere alternativa a quella reale, accettata e normativizzata, che era quella maschile. Oltre il giusto, che apparteneva all’uomo, c’era il resto, c’era l’altro, c’era il mondo femminile che solo in seguito ha meritato di essere normativizzato. Qua troviamo la falla del sistema, quella che ancora oggi ha portato numerose femministe a non guardare alle varie leggi a favore delle donne come vere vittorie, ma viste come alternative al sistema principale, già ampiamente normativizzato, che sarà inevitabilmente patriarcale. La norma è tale e aggiunta, perché una legge maschile di partenza ne ha permesso l’individuazione, la creazione e l’applicazione nella vita di tutti i giorni. 

Il rapporto, quindi, tra femminismo e normativismo giuridico risulterà essere controverso tutt’oggi, perché se innovativo da un lato, dall’altro comunque risultante dell’arbitrio maschile. Gli studi femministi a riguardo si estendono, da Mary Wollstonecraft, a Carol Smart. Quest’ultima è, tra l’altro, famosa per uno dei passaggi più noti in un suo saggio: “Il diritto è sessista, il diritto è maschile, il diritto è sessuato”. Con queste parole si apre un ampio dibattito femminista contemporaneo sulla convinzione che il diritto non possa essere altro che una delle maniere nelle quali i poteri del sistema patriarcale si esplicano.

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Esempio portante di tutto ciò nella nostra realtà, quella italiana, è stata senza dubbio la lotta per la depenalizzazione dell’aborto in Italia. Il fatto proprio che la battaglia sia conosciuta ad oggi sotto questo nome, e non come un allargamento della Legge 192 quale legittimo diritto alla salute in generale, è esplicativo della percezione che la legge ha della libertà delle donne e di come questa sia percepita dalla comunità. La critica che viene mossa dai diversi studi femministi a riguardo è il fatto che, anche la legge in questione – quella del riconoscimento del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza – sia stata essa stessa il risultato finale di un procedimento decisionale di stampo maschile. A decidere quali donne, in che condizioni, il grado di esposizione ai medici obiettori e quando, e se, scegliere di interrompere una gravidanza, è stato un sistema giurisdizionale che continua a portarsi addosso radici patriarcali. 

Un approccio femminista come questo, che tende quasi al decostruttivismo, porta a chiedersi cosa fare. Le lotte, anche dette giusfemministe, e lo sviluppo di una coscienza nei confronti di queste tematiche ha inevitabilmente movimentato e accelerato i processi di normativizzazione di riconoscimento del diritto delle donne, ma fino a che punto si deve lottare per qualcosa che, di natura, sarebbe già proprio? Ci rendiamo conto che il problema è molto più insito. Che per quanto sia giusto ricondurre il dualismo femminismo/diritto alla realtà dei fatti, nel concreto la difficoltà è alla base. Ossia, nella capacità di poter capire qual è la relazione di questo diritto, ad un senso molto più ampio, quello della giustizia, e in che termini questa viene intesa. Se essa è intesa come protezione dei più vulnerabili – perché in uno status di mancanza di giustizia e in una posizione inferiore – allora potrebbe porsi proprio qui il problema. L’approccio al mondo femminista e alle donne in generale non deve essere dal punto di vista normativo come suppletivo o tentativo vagante nel colmare delle lacune, perché visto come uno strumento da usare di fronte ad una parte di popolazione in minoranza o inferiorità. Il cambiamento deve avvenire alla base, nella percezione che la polis di oggi ha delle donne. Che queste non siano più viste come Alter, ma come Eguali. E che attraverso meccanismi giuridici, sociologici, linguistici si punti effettivamente ad un cambio di prospettiva. Così da agire e operare non in virtù di un cambiamento che deve essere fatto perché percepito come dovere, tale da colmare un vuoto normativo, ma come un cambio di percezione generale che veda le leggi e la loro applicazione effettivamente in una prospettiva egualitaria e giusta, che non sia più su una distinzione di genere, ma sul riconoscimento della persona in quanto tale.

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