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Manifesto queer: storie fuori dal binario
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Manifesto queer: storie fuori dal binario

Articolo di Francesco Pregevole

Giffoni Valle Piana, agosto 2014. Sono a un campo scout: la natura ci sorride, il mio compleanno è alle porte e un ragazzetto, in quello che sembra un tentativo di diagnosticare “il problema di quel bambino là”, mi bisbiglia dolci parole. “È trans”, mi dice. Ho quasi 11 anni, e mi hanno appena insegnato ad associare la parola trans a una sorta di patologia.

Non so molto bene come mettere per iscritto la rabbia che ribolle dentro di me da molto tempo, come decodificare questa sofferenza, come riuscire a farla capire al mondo. È un dolore quasi inesprimibile a parole che stenta ancora a venir fuori ma che ho imparato ad accogliere a braccia aperte. Voglio andare al punto, senza troppi giri di parole e virtuosismi linguistici: essere trans* e non binary è un fardello, incarnare la “complessità” di genere è asfissiante, e il prezzo da pagare rimane alto. Scherzi della natura, ric**ioni, fenomeni da baraccone, ecco alcuni dei classici epiteti che ci vengono simpaticamente affibbiati da quando decidiamo di dire no alle regole della cisnormatività e manifestiamo apertamente e con orgoglio la nostra identità di genere. Mi sto riferendo soprattutto alle persone AMAB, quelle con i piedoni, la mascella pronunciata e il celeberrimo pomo d’Adamo, quelle che se indossano un abito si rendono ridicole davanti a tuttə.

La verità è che non abbiamo accesso alla tanto agognata femminilità, concessa soltanto a chi dalla nascita presenta quel tipo di struttura anatomica. Siamo piccoli mostriciattoli che osano sfidare la legge della norma e che pagheranno caro i loro gesti. Le nostre empietà non resteranno impunite: lo vediamo ogni giorno con le discriminazioni, le aggressioni e quelle microaggressioni impercettibili all’occhio cisgender ma dolorose per chi le subisce. Misgendering, commenti su un aspetto sempre più femminile, illazioni di ogni genere: cerco di ignorare, imparo a resistere, mi sforzo di stare al gioco, ma la disforia che ne consegue non gioca a favore della mia salute mentale e la vocina che mi sussurra che la mia identità di genere merita l’invisibilità a volte prende il sopravvento.

La scuola è oggigiorno uno degli ambienti meno sicuri per le persone trans* e queer in generale (la vera domanda è: esistono spazi che garantiscono la nostra incolumità, no matter what?), che si ritrovano a fare i conti con un clima pregno di ostilità e indifferenza alla loro tutela e alla possibilità di ampliare una visione del mondo ristretta. Succede così: le persone vittime di discriminazioni non hanno voce in capitolo, sono costrette a faticare il doppio per ricevere un minimo di riconoscimento, e quando riportano un episodio di violenza vengono messe a tacere, screditate, non credute, non tutelate, poste dinanzi a un sistema iniquo e oppressivo. E so bene come ci si sente.

Provo costantemente un senso di inadeguatezza e di vergogna verso me stessa e verso la mia anima transgender racchiusa in un corpo transgender. Ho paura di non riuscire a farcela in questo mondo, di star tradendo le persone che mi circondano, mi sento impotente e incapace di sopportare ulteriori commenti e affermazioni non richieste una volta uscita da questa bolla detta semi-quarantena, e anche invidiosa verso chi può giocare con la femminilità senza inibizioni. Mi vestirò come mi pare? E se non lo farò perché avrò ancora paura del giudizio altrui, tipo quello di mia madre che vive sotto il mio stesso tetto h24 o di Gianrico di Montefeltro, sarò indulgente con me stessa? Smetterò di crocifiggermi per non aver superato degli ostacoli? Imparerò ad accogliere le mie fragilità? E perché non iniziare adesso? Le domande che mi pongo ogni giorno non sono frutto di paranoie, ma manifestazioni di paure vere e incontestabili che non voglio più nascondere. Non posso permettere alla società di sentenziarle e declassarle, è la mia storia e come tutte le altre ha un valore incommensurabile.

Ho appena parlato al singolare perché ho voluto testimoniare una parte della mia esperienza di singolo, ricordiamoci infatti che ogni esperienza trans* è unica e valida nella sua irrepetibilità, ma alla base c’è una sofferenza negata che è molto simile a quella rabbia che alcuni decenni fa ha portato al riscatto di una comunità a lungo marginalizzata: nonostante peripezie e difficoltà su tutti i fronti, continua a difendere le proprie libertà. Unapologetically. Succede così: quando le persone vittime di discriminazioni si autodeterminano decretano, in una piccola ma significativa percentuale, la fine di quella cultura patriarcale che ci insegna, fra le tante cose, ad associare il transgenderismo a una condanna.

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Sono stanca ma so che ciò di cui ho bisogno è trovare un po’ di serenità e sostegno in chi condivide le mie stesse esperienze, nel frattempo faccio il possibile per mantenere vivo quell’orgoglio che ha sempre fatto da leitmotiv della nostra comunità e vivere la mia verità in modo autentico. Me lo merito. Ce lo meritiamo tuttə.

Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di: Christin HumeFlorian Klauer su Unsplash, di Foreign, Commonwealth & Development Office e The Gender Spectrum Collection.

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