Che il femminismo sia una chiave di lettura d’azione e gestione, potrebbe risultare indubbio a chi il femminismo lo pratica in sé e fuori dal sé. Ma che il femminismo vada prima imparato, masticato, accettato e interrogato, sembra quasi essere stato scordato.
C’è un tempo in cui chiunque non poteva che non essere femminista: in ogni vita che oggi ci si dichiara, c’è stato un tempo di riluttanza, se non di diffidenza, di io non sono femminista, sono per la parità. L’abbiamo detto però più volte: la strada non sarebbe stata quella giusta se non avesse portato con sé dissestamenti, dubbi, resistenze. E laddove a volte diventa inutile rinnegare, ci sono momenti in cui sembra quasi più facile fingere di non sapere da dove si arrivi, piuttosto che imparare proprio da quelle sensazioni che ci hanno permesso, chi prima, chi dopo, di diventare più o meno consapevoli dei nostri inizi.
Il ventaglio di strumenti che ogni persona ha a disposizione non può essere dato per assunto, e conoscerlo significherebbe calcolare i vissuti personali e politici delle stesse, intersecati da diverse varianti, identificabili come una dicotomia tra privilegio–non privilegio. Così come non può essere data per assunta la capacità di ogni singola persona di avvertire come parimenti importanti istanze che, per motivi a noi più o meno comprensibili, non sempre possono essere posizionate in alto secondo una scala valoriale. L’unico dato presumibile è piuttosto la consapevolezza di come la società, questa indefinita macchina allo stesso tempo artefatta ma naturale, plasmi e socializzi le persone come congegni per riprodurre, coscienziosamente o meno, una serie infinita di meccanismi, funzionamenti, idealtipi, conoscenze, assunzioni, ruoli. E chi ha percorso i primi passi del femminismo, sa bene cosa significhi tutto d’un tratto assumere una consapevolezza fin lì nascosta da un velo che ci programma per riprodurre, sempre uguale a se stesso, uno status quo che adesso non è più una sicurezza cristallizzata come vorrebbe presentarsi.
Il femminismo non funzionerebbe se non fosse scomodo, se non fosse difficile da digerire in tutte quelle che sembrano decostruzioni sempre più fitte e complesse. Dare la colpa al movimento significherebbe fare il gioco dei padroni, che si tappano le orecchie e manipolano chi li guarda, al fine di convincere che l’intento di chi lotta è tra i più meschini e rovinosi che siano mai esistiti. Il problema di scontrarsi con chi finge di non voler ascoltare – ascoltano invece, molto attentamente, per comprendere con chi si scontrano, desiderosi di non lasciar andare neanche uno dei benefici di cui giovano –, sta proprio nella riuscita di questo meccanismo, che attecchisce fino a risultare naturale e non artificiosamente costruito. E quando attecchisce, il femminismo si ritrova accerchiato non più dai padroni, ma da pedine che sono, nel più dei casi, inconsciamente manovrate al fine di prendersi la scacchiera intera.
Lì, su quella scacchiera, ci stavamo anche noi.
Le lotte tra chi opprime e le categorie oppresse è una lotta impari, sbilanciata nella mancanza di strumenti, privilegi, voci, e consapevolezze rubate, portate via, nascoste. E come ogni lotta impari che si conosca, non può essere portata avanti senza che nel tempo si rubino armi a chi negli strumenti ha da sempre sguazzato; assottigliare lo squilibrio, rubare le piazze, insediarsi nelle loro poltrone, riprendere ciò che è stato portato via. Volessimo parlare di etica, verrebbe da chiedersi quanto questo meccanismo possa essere considerato giusto – ma di etica non parliamo, non così per come ce l’hanno spacciata, perché è strumento Loro, da sempre usato per un’invalidazione cronica della causa –; volessimo parlare di filosofia, arzigogoleremmo il pensiero su di una teoria affascinante e necessaria, ma scorderemmo ben presto la pratica.
Vogliamo parlare di femminismo, però, e allora viene da chiedersi quali strumenti di oppressione possono venir adottati dalla schiera delle persone oppresse senza che perpetuino a loro volta divisioni che, pur suonando legittime, altro non sono che risultati di espedienti dapprima usati contro di noi.
Rabbia, voce, lotta, megafoni. Se ogni persona-pedina si mettesse all’ascolto verrebbe da dire ce la possiamo fare. Se ogni persona che prova a distruggere la scacchiera – per intenderci, chi il velo lo ha scostato – usasse questi strumenti riappropriati per tirar dentro, e non fuori, altre pedine, verrebbe da dire ce la possiamo fare.
Eppure a volte sembra di assistere alla nascita di una nuova gerarchia, di una nuova scacchiera pronta ad inglobare per esclusione – che ossimoro, eppure spesso accade questo, una scrematura –.
Non sei abbastanza femminista.
Ed è vero che la colpa non è del femminismo, e che a pensarlo facciamo i Loro giochi, ma è anche vero che a volte è utile fermarsi ed architettare nuove strategie e perché no, anche nuovi strumenti. Distruggere questa scacchiera in cui ogni persona-pedina viene relegata senza che ne abbia consapevolezza significa permettere di creare strumenti, affinché ogni persona possa attraversare il percorso di presa di coscienza. Non dare dall’alto nozioni, non impartire discorsi, non puntare il dito; a volte sembriamo scordarci contro chi la lotta deve essere avanzata.
Chi ha presente la saga Hunger Games di Suzanne Collins, si ricorderà come la gerarchia sia stata smantellata, distretto dopo distretto; per chi non la ha presente, basti sapere che la storia si incentra sulla distruzione dal basso di un sistema-status quo, dove la Rivoluzione ha portato presa di consapevolezza, distribuzione di strumenti, lotta. Non una volta, durante questa storia, hanno insinuato l’idea che vi fossero colpe personali laddove le persone erano ignare del sistema di costrizione in cui erano ingabbiate nella loro esistenza. L’obiettivo, allineato al Nostro – non a caso, se la saga non fosse conosciuta a chi legge, il consiglio sarebbe quella di recuperarla –, era uno e uno soltanto: smantellare il potere, ridistribuire il privilegio, eliminare le oppressioni. Una lotta sì armata, ma che ha portato con sé una presa di coscienza collettiva, un risveglio delle menti oppresse da una litania lenta e in grado di rendere inerme ogni pensiero che non fosse in linea con il Potere.
A volte vien da chiedersi a che gioco stiamo giocando. Vien da chiedersi a chi abbiamo intenzione di far pagare le colpe Loro – c’è da ricordarsi però che gli Hunger Games con la prole dei padroni non sono stati mai giocati –; chi siano le persone nemiche; che lotta è, di singole menti brillanti o di una collettività risvegliata?
Per chi mastica il femminismo, alcune domande non sembreranno nuove; eppure sembra di vedere una corsa alla parola e all’accusa che di tutto sa meno che di collettività. Saranno considerazioni forse avventate, forse estreme, forse esse stesse parte del problema, ma a volte lo si vede questo nuovo muro che è insorto, vien da dire dalla parte sbagliata, e a volergli dare un nome così potrebbe essere chiamato: femminismo elitario.
Una corsa singola, un affanno alla decostruzione più azzeccata, una ricerca esasperata di capi espiatori, una necessità di potersi affermare come eccellenza del femminismo. Uno scordarsi da dove si arriva: esattamente da quella scacchiera, persone-pedine. A volte è facile scordarsene, a volte quello stato da cui è stato possibile risvegliarsi appare così buio da non volercisi rivedere più; ma più passa il tempo, più appare evidente sia una rinnegazione fine a se stessa, una vergogna dalla quale, se la si sbandierasse, sarebbe impossibile riprendersi. Come se ogni persona che vogliamo tirare dentro non arrivi direttamente da lì, come se ogni persona dovesse silenziosamente e perfettamente risvegliarsi con le proprie mani, o come se ogni persona che già si trova dall’altra parte non fosse intitolata a dire che questo femminismo non la rappresenta.
Una divisione che vede Noi come il giusto, e un loro indefinito che si compone di nessun potere se non quello riversato nel mantenimento della condizione sociale odierna. Questo loro sembra però aver perso attinenza con la reale Capitol City da abbattere, e a volte, c’è da dire, agli occhi di chi sembra saperne sempre di più, in quel loro rientra anche chi il femminismo non lo abita con quella smania individualista
pronta-a-puntare-il-dito.
Un femminismo elitario che fa la guerra a chi sta dentro e a chi sta fuori; un femminismo elitario che sembra essersi scordato dei propri passi per arrivare dov’è arrivato. Chi abita il femminismo sa bene cosa voglia dire prendersi tempo per riorganizzare una lotta, laddove diventi impellente ripensarsi di fronte a degli errori reiterati nel tempo, sempre poco scusati e sempre troppo utilizzati per definire personalità, attitudini e intenti; se il mondo che vorremmo esistesse, l’errore verrebbe scusato in vista di un più alto obiettivo, quello della comprensione dello stesso, del ripensarsi, del fermarsi e prendere fiato. Ed ecco che di nuovo appare evidente di come il femminismo si sia scordato anche della possibilità che esistano sia l’errore che il fermarsi; da dove arriviamo di certo c’è solo l’aver preso tempo per accorgersi di quanto necessario era ragionarsi diversamente da come ci conoscevamo fino a quel momento.
Viene quindi da chiedersi perché sia così difficile farlo adesso; la lotta, se si ferma, ha bisogno di essere ripensata. E abbattere questo femminismo elitario, che ci divide al suo interno tra chi sa e chi non sa, e all’esterno, tra chi non capisce e chi capisce, è forse ciò che permetterebbe alla lotta di ripartire più sanamente rabbiosa di prima.
Che questo non sei abbastanza femminista possa diventare un ragioniamoci assieme, menti alla pari. E che questo non potrai mai arrivare qui diventi un vieni, ti mostro prendendoti per mano.